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Fini: "Ora mi danno ragione, apriamo la fase del dopo"

Gianfranco Fini

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{{IMG_SX}}L'articolo più delicato è stato affidato a Carla Conti. Che non esiste. È uno pseudonimo che usano i «pezzi pesanti» del Secolo d'Italia. E Carla Conti era la firma dell'editoriale del giornale di An. Forse riconducibile a Flavia Perina, il direttore editoriale e uno dei pochissimi deputati che possono considerarsi della sua cerchia. Ecco perché quell'articolo di ieri (che tutti i big di An hanno letto e nessuno ha pubblicamente commentato) certamente non sarà scritto di suo pugno dal presidente della Camera, ma è assai probabile che egli lo abbia in qualche modo autorizzato, avallato. Che cosa ricorda questo editoriale. Mette in fila tre recenti dichiarazioni di tre critici nei confronti di Fini: Maurizio Gasparri, Ignazio La Russa (che ieri hanno dichiarato al Corriere di non leggere il giornale del loro ex partito) e Sandro Bondi, gli ultimi due coordinatori del Pdl. Il presidente dei senatori del Pdl spiega: «Talvolta qualcuno lo critica, ma non vuol dire diente. E chissà che non ci porti voti da sinistra». Il ministro della Difesa spiega: «Oggi non ci porta voti, ma domani». E quello dei Beni Culturali definisce il confronto con le tesi di Fini «un passaggio indispensabile per realizzare la vocazione democratica del nuovo partito». Leggendo le parole di Bondi, spiega «Il Secolo», «par di capire che il senso non sia quello di zittire una voce fuori dal coro ma l'auspicio che il coro sappia avvantaggiarsi della bravura del tenore». Di qui il commento del giornale di cui il presidente della Camera è editore: «Oggi si ammette che Fini sta delineando un orizzonte e un progetto politico e si valorizza il suo rilievo anche ai fini del consenso». Nell'articolo si riferisce che sempre più spesso in Transatlantico si ode «un sommesso ma impercettibile "meno male che Fini c'è"». Di qui si entra nella parte più progettuale spiegando che «qualcosa di nuovo sta accadendo al di là dello schema degli opposti populismi che da qualche mese domina il dibattito». In pratica si chiede di archiviare quella che «il Secolo» chiama la dittatura del presente, ovvero legiferare per far fronte alle emergenze: immigrazione, scuola, terremoto, crisi. «Non è estranea all'improvvisa rivalutazione delle argomentazioni di Fini la consapevolezza che fuori dalle temperie della campagna elettorale, quando arriverà il "dopo" e col "dopo" la necessità di dare un'anima e una direzione al Pdl e alla legislatura, non ci si potrà affidare al vecchio schema di Berlusconi che pensa per tutti». Si aprirà a quel punto il capitolo dell'«Italia che vogliamo» (così si chiamavano tra l'altro i comitati di Prodi nel 2006). A quel punto segue in pratica un vero e proprio manifesto politico: «Tornerà utile un po' di ragionamento finiano, per raccordare gli spunti "rivoluzionari" di Sacconi al dettato costituzionale sul diritto a un'equa retribuzione, le riforme di Brunetta all'idea di un'Italia all'idea di un'Italia più competitiva ma anche più giusta, il rigore in materia di sicurezza a scelte precise che integrino gli immigrati di cui ci siamo fatti carico, l'attenzione per gli appelli sociali della Cei alle politiche economiche complessive».

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