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Ora non c'è diplomazia che tenga

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Le ultime nuove ci raccontano un Battisti che minaccia di uccidersi pur di sottrarsi alle conseguenze dei suoi atti. Ma è bene respingere questo ricatto e fare il possibile perché il terrorista rientri in Italia. Le legittime esigenze della giustizia italiana sono state maltrattate prima dalla Francia e in seguito dal Brasile, ma alla base di tale comportamento è facile riconoscere questioni annose, su cui per gli italiani è sempre assai penoso soffermarsi. Non vi è dubbio che non si sarebbe arrivati a questo punto se le nostre autorità si fossero mosse prima e se nei decenni scorsi si fosse evitato di mostrare tanta accondiscendenza nei riguardi dell'estremismo di marca comunista. Senza la tolleranza su cui Battisti ha sempre potuto contare, sarebbe stata meno efficace la stessa rete di solidarietà che di frequente collega i "compagni che sbagliano" della lotta armata proletaria e i partiti socialisti al potere in mezzo mondo. Ma non è solo una questione di destra e sinistra. Un ruolo significativo va addebitato all'Italia nel suo insieme: all'immagine che essa ha costruito negli ultimi sessant'anni, con le sue fragilità strutturali e la sua costante attitudine a ricercare intese e compromessi. Per giunta, il discredito che circonda la giustizia e la magistratura italiane - come documentano pure taluni pezzi forti della nostra cinematografia - ha chiaramente favorito Cesare Battisti. Non si può negare, infatti, che quanti raffigurano il terrorista come una vittima hanno fatto leva sul discredito che circonda le toghe: spesso lente, poco professionali, in qualche occasione perfino colluse a spezzoni di malaffare. Nessun Paese si sarebbe mai comportato come le autorità francesi e brasiliane se Battisti fosse stato un terrorista pluriomicida dell'Ira o della Rote Armee Fraktion e se a pretenderne la restituzione, appunto, fossero stati il governo britannico o quello tedesco. È insomma con la rappresentazione complessivamente screditata dell'Italietta di sempre che l'affaire Battisti obbliga a fare i conti. Nello specifico, poi, delle ultime resistenze manifestate dall'amministrazione Lula, vi è il fatto che il Paese sudamericano si permette di offendere la memoria di quattro vittime perché sa che la nostra politica estera è tradizionalmente accomodante, più disposta alla mediazione che incline a far pesare le proprie ragioni. In molte occasioni questo atteggiamento produce esiti positivi, ma non sempre è così. Basta comunque scorrere le cronache delle ultime settimane per capire che i rapporti economici tra Italia e Brasile (si pensi alla vicenda della Chrysler e agli interessi di Fiat in tutto ciò) sono destinati a intrecciarsi sempre di più. Ma dovremmo iniziare a utilizzare tale situazione anche a nostro favore, perché se è vero che l'Italia intende fare affari con il Brasile, è esattamente vero pure il contrario. In fondo, a quelli di Brasilia bisognerebbe far comprendere che i primi ad avere bisogno di noi sono loro. E che proprio per questo dovrebbero essere loro a dar prova di serietà e affidabilità.

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