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Anche l'economia è morta

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Le grandi aziende, i capannoni della zona industriale sono tutti chiusi. Così come la maggior parte dei negozi, le piccole attività commerciali. Quattro giorni dopo la grande scossa L'Aquila è una città economicamente morta. In ginocchio. E chissà per quanto ancora lo sarà. Pochissimi hanno avuto il coraggio e la forza di riaprire. È ripartita solo la grande distribuzione, i colossi commerciali che hanno fatto arrivare merce e dipendenti dalle altre regioni. Ma per chi ha piccole attività i problemi sono enormi. «Quando riapriremo? Lo sa solo Sant'Emidio, il santo dei terremoti» allarga le braccia Rossano Spaziani, 61 anni, da 40 titolare di una concessionaria Volvo nella zona industriale di Pile. La struttura è danneggiata, ci sono crepe ovunque. «Ci saranno almeno 150 mila euro di danni. Io vorrei anche ricominciare ma come si fa? Magari viene un'altra scossa e bisogna buttare di nuovo via tutto. Aiuti? Qui da noi ancora non si è visto nessuno, nessuno ci ha chiesto nulla. E poi i nostri dipendenti sono andati tutti a casa di parenti sulla costa, qui chi viene a lavorare?». La grande distribuzione, come il gruppo Leclerc-Conad nel centro commerciale l'Aquilone che ha riaperto ieri, ha provveduto alla mancanza di personale del posto facendo venire cassieri e magazzinieri dalla Puglia e dal Molise. «Stasera torneranno a casa — spiega Roberto Canu, il direttore dei supermercati Conad dell'Adriatico — ma stiamo facendo arrivare dei camper in modo che da domani possano dormire qui». I grossi supermercati hanno riaperto anche su pressione del sindaco e della prefettura. «Ce lo hanno chiesto per garantire alla gente i beni essenziali, ci sono persone che sono scappate senza portarsi dietro nulla. Qui possono trovare di tutto». E in più la grande distribuzione funziona anche per rifornire la Protezione civile dei viveri per i campi allestiti nella zona. Intorno al centro commerciale resta però tutto chiuso, i capannoni del Centro Frutta, le autofficine, le fabbriche di lavorazione di marmi. Uno dei pochi che ha avuto il coraggio di riaprire fin dal primo giorno, da lunedì, è Antonio Franchi, 58 anni, amministratore del «Fornaio aquilano» sempre nella zona industriale di Pile. Ma addosso ha una gran rabbia. «Ho chiesto due bomboloni di gas perché manca il metano, ho fatto cambiare gli augelli del forno e sono pronto a lavorare, a sfornare il pane. Ma in questi giorni lo hanno fatto arrivare da fuori. E allora io perché mi sono rimboccato le maniche e ho riaperto? Ho 15 dipendenti, vogliamo mandare a casa tutti? Se facciamo così questa città muore. Per fortuna oggi è venuta da me la Protezione civile e ha ordinato 2 quintali di pane, almeno iniziamo a lavorare di nuovo». Fabrizio Cameranesi, 53 anni, è un altro che ha avuto la forza di riaprire. Il suo negozio «Sapori di mare» vende generi alimentari e prodotti surgelati. Ma ieri, in tutta la mattinata, ha fatto solo quattro scontrini. E due erano per casa sua. «La gente non viene a fare la spesa, come fa? Però abbiamo voluto riaprire, molta merce l'abbiamo data in beneficenza. Ma solo di corrente questo negozio ci costa 4, 5 mila euro al mese, non so come faremo con i pagamenti». Sulla strada che porta allo stadio ieri ha riaperto una macelleria. All'ingresso un paio di insegne pubblicizzano le offerte: un chilo di fettine, macinato o spezzatino 20,70 euro; il petto di tacchino a 7 euro e 30. Ma dentro di clienti nemmeno l'ombra. Chi sta nei campi ancora ha la testa al terremoto, al dramma che ha vissuto. Non va a lavorare e non riapre i negozi. «Ma così la città muore — avverte il sindaco dell'Aquila Massimo Cialente a capo di una coalizione di centrosinistra — Bisogna far ripartire subito l'economia, per questo sto telefonando personalmente a tutte le aziende per dire ai dirigenti di non allontanarsi, di non scappare. Stiamo accelerando al massimo i tempi per le verifiche di stabilità e poter far così ripartire attività piccole e grandi. E sto facendo pressioni per fare in modo che chi può riapra il prima possibile». Ma il problema è far tornare i dipendenti al lavoro. Fabio Spinosa, presidente dei giovani industriali dell'Abruzzo, spiega quello che sta facendo la sua associazione: «Bisogna prima restituire sicurezza e serenità alle famiglie perché altrimenti nessuno torna a lavorare. Noi abbiamo un tavolo di lavoro permanente con le istituzioni. Stiamo spingendo le banche a riattivarsi il prima possibile, abbiamo chiesto a Inail e Inps di garantire l'erogazione delle pensioni. È tutto il sistema che si deve rimettere in modo. E in fretta. Bisogna dare un segnale. Forte. Altrimenti l'Aquila è morta».

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