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Attraversando le strade dei ricordi

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.Inganna. Anche me, che a casa sono tornata il giorno dopo, da cento chilometri di distanza, con un passaggio. Senza dare spiegazioni, nascondendomi dalle paure dei miei. C'è un sole incongruo, che splende sulle case vuote, una distesa di calcinacci all'ingresso del cortile che ho attraversato per quarant'anni. Ma i palazzi sono lì, come una sfida al destino. Quattro mandate e la porta si apre su un miracolo sospeso: non accendo la luce per paura di vedere troppo, ma sui mobili ci sono gli oggetti di sempre. Solo, in cucina, i vasi caduti, nella camera, che i miei genitori hanno abbandonato in fretta, il televisore scaraventato a terra dalla violenza della scossa più forte. Fortunata, per la prima volta nella mia vita mi sento così. Neanche il botto di un calcinaccio che cade mi scuote da questo primo sollievo ritrrovato. La distanza è uno strano nemico, gioca con la paura e il dolore annichilendo sia la ragione che l'istinto. La distanza cancella. Da Pescara all'Aquila sono tornata per vedere ciò che è mio, le persone, i luoghi, sospesa tra paura e speranza. Anna, l'amica di sempre, è lì che mi aspetta, con i genitori che mi vogliono bene come ad una figlia. Stanno per andare via, sanno che anche io sto ripartendo e in un lungo abbraccio ci confessiamo quello che le parole non dicono. Capiscono che sto cercando di estrarre dal dolore i miei ricordi vivi. Il confine da superare è la casa che è stata dei miei nonni, in una delle zone più disastrate della città. Percorro viale Duca degli Abruzzi come ho fatto centinaia di volte: i giardinetti, villa Masci violata nella sua bellezza. Guardo avanti: so che girando un angolo potrei non trovare più nulla. Invece la piccola piazza dietro il viale è quieta e dolce. Solo una struttura, abbandonata da anni, mostra impudica le sue ferite. Guardo le imposte chiuse, ma stavolta le chiavi, che stringo tra le dita come un talismano, non ho il coraggio di usarle. Ogni cosa ha il suo tempo. Invece, l'orrore comincia cinquanta metri più in là, via Pretatti, via Roma: le chiamavo le strade dei giochi, sono la devastazione. Da piazza San Pietro si esce solo superando trappole mortali, cornicioni pericolanti e montagne di detriti bloccano ogni via d'uscita: via Cascina è un approdo insicuro, ma dà sollievo, se ti sei arrampicata attraverso le macerie. Il più è fatto: guardo attraverso i cancelli del Convitto nazionale, la scuola che è stata mia e di mio fratello, dove mia madre ha insegnato. Cerco di immaginare cosa si nasconde dietro il portone del Liceo Classico, perché se alzo gli occhi vedo che l'angolo esterno della sala Patini è lesionato. Riannodo i fili: in via Tre Marie la vecchia redazione si nasconde dietro il suo cancello, della nuova so che resta ben poco. Sono gli ultimi passi in questo centro che non ha più abitanti, solo guardiani. L'ultimo ricordo è sul telefonino: un messaggio di due parole «tutto ok?» arrivato alle 3,44 di una notte senza sonno. Prudente e sobrio come la persona che lo ha mandato. Quel messaggio che ora mi accompagna, silenzioso, tra i dubbi del futuro.

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