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Chinatown di Prato dove lo straniero è l'italiano

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Siamo nelle terre del Chianti e della ribollita ma qui, a poche centinaia di metri dal centro medievale, la cultura e i sapori italiani sono un optional. E ieri è stato il ministro delle politiche comunitarie, Andrea Ronchi a voler toccare con mano le conseguenza di un'integrazione che non ha creato problemi ai vecchi abitanti della zona cinese di Prato. Li ha semplicemente fatti sparire. Già gli italiani in quel quartiere non ci sono più. Hanno lasciato le loro case, le loro attività, cedute ai primi colonizzatori orientali senza comprendere la rivoluzione che avanzava e che oggi è completa. Nella via che porta alla Piazzetta (così i toscani chiamano uno spiazzo tra due palazzi dove ogni giorno gli ambulanti cinesi vendono mercanzie di ogni genere. Senza permesso ovvio) le insegne ricordano il cromatismo delle capitali asiatiche. Così come le sonorità. Il parrucchiere ad esempio si chiama «Zhen Zhen». Sopra un improbabile spaccio di prodotti elettrici troneggia a caratteri cubitali la scritta «Di Dong» che forse è il nome del proprietario, ma non è male immaginare la sua perfetta assonanza con qualche strana cineseria elettronica. E poi Fang Sons, e ancora Songh Zen. Un lembo di terra che oggi non sembra più un pezzo d'Italia. Ed è qui chi Ronchi parla. «Ho voluto stringere la mano a quei pochi italiani che, coraggiosamente, resistono con le loro imprese: hanno chiesto aiuto e noi abbiamo il dovere morale di dare loro aiuto, perché questa è terra d'Italia, con le sue leggi, le sue regole, la sua legalità, la sua cultura». Già. La legalità e la tolleranza. Facili a parole, ma difficili da far digerire a migliaia di persone con gli occhi a mandorla scrutano il seguito del ministro con curiosità. Ma anche con un'indifferenza malcelata che non perde di vista il movimento dello straniero. Solo che questa volta lo straniero è l'italiano nella sua terra. Ce ne sono pochi ancora qui. Ma quelli che restano vogliono resistere. Come delle piccole fortezze. Una di queste è la Utensil Ferramenta del signor Paolo. Un'attività italiana al centro di Chinatown. «I cinesi non ci creano problemi dal punto di vista della sicurezza. Ma le regole sono solo un optional. Davanti alla vetrina si fermano commercianti ambulanti non autorizzati. E nel mio negozio non entra più nessuno. Ma io resisto. Non mollo». È tra questa gente che Ronchi comprende che Alleanza Nazionale continua a essere la pancia dell'elettorato di centrodestra, fusione e nuovo partito a parte. All'uscita un uomo italiano in bicicletta lo riconosce, si ferma. «Ministro, ci dia una mano lei. Qui le istituzioni non ci ascoltano» grida. Ronchi gli stringe la mano. Basta anche questo per ora ai pratesi. Vessati da una crisi che non è partita con i subprime ma che è datata almeno cinque anni. Ronchi assicura anche la risposta istituzionale: «L'impegno per la creazione dell'albo europeo di controllo di qualità per le merci importate e all'attivazione ministero di uno sportello per contrastare la contraffazione che vedrà la collaborazione di Guardia di finanza e Arma dei carabinieri». Anche così si aiuta un distretto tessile che parla cinese non solo nella distribuzione ma anche, ormai, nella produzione. L'ultima tappa del viaggio a Chinatown è infatti a quello che chiamano il macrolotto. Il polmone produttivo fuori Prato in cui l'unica lingua è quella degli ideogrammi. Qui l'ultima immagine è la copertura di una bocchetta antincendio. Al posto del vetro di protezione del tubo c'è una carcassa di un ventilatore. Forse il ripristino della legalità passa anche dai dettagli. Prato attende anche questo.

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