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Quirinale, croce e delizia della politica

Gianfranco Fini

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Tre persone nel loro campo molto autorevoli hanno voluto impartire l'altra notte nel salotto televisivo di Bruno Vespa, tirando un po' le orecchie anche al padrone di casa, una lezione di galateo istituzionale e giornalistico che non mi ha convinto. E che mi permetto di contestare senza voler mancare di rispetto al presidente della Camera Gianfranco Fini e al direttore del Sole 24 Ore Ferruccio de Bortoli, e di amicizia al direttore del Corriere della Sera Paolo Mieli. Che erano appunto i protagonisti di quella puntata di Porta a Porta. Quando Vespa ha interpellato Fini sull'ipotesi, della quale si scrive spesso sui giornali, di una sua elezione alla Presidenza della Repubblica alla scadenza del mandato di Giorgio Napolitano, fra poco più di quattro anni, il presidente della Camera ha cercato di liquidare l'argomento irridendo ad un certo «giornalismo scherzoso». Che avrebbe il torto di alimentare «il teatrino della politica» e di mancare di riguardo all'ottimo presidente della Repubblica in carica. Di fronte ad un giusto richiamo di Vespa ad una intervista ancora fresca di stampa a el Pais, nella quale lo stesso Fini aveva parlato della successione a Napolitano definendo una elezione di Silvio Berlusconi «tutt'altro che remota», il presidente della Camera ha cercato di cavarsela con un altro richiamo al galateo. «Ho risposto ad una domanda», ha spiegato. A questo punto Paolo Mieli, in collegamento esterno, ha esortato Fini a sottrarsi la prossima volta a domande di quel tipo. Cosa che il presidente della Camera -se non ho capito male- si è impegnato a fare riconoscendo giuste le osservazioni sulla inopportunità, ineleganza o quant'altro di parlare della successione ad un presidente della Repubblica ancora in carica e distante dalla scadenza. Osservazioni condivise e riprese dal collega de Bortoli,seduto nello studio televisivo di fronte a Fini. Mi chiedo se sia più «teatrino» quello attribuito ai giornali quando accoppiano il presidente della Camera o altri al Quirinale o quello al quale si è assistito l'altra sera in televisione reclamando discrezione e rispetto per Napolitano. Me lo chiedo con l'esperienza peraltro maturata in quasi cinquant'anni di professione giornalistica, durante i quali mi è capitato di raccontare e commentare una lunga serie di edizioni della corsa al Quirinale. Nessuna delle quali è cominciata o è stata rappresentata solo all'ultimo momento, a ridosso della scadenza del mandato del presidente di turno. I giornali, caro presidente Fini e cari colleghi direttori della puntata di Porta a Porta dell'altra notte, non andavano a caccia di farfalle sotto l'arco di Tito. Più semplicemente raccontavano quello che accadeva, raccoglievano e interpretavano i segnali che partiti e uomini politici, scalatori occulti o palesi al colle più alto di Roma, si lanciavano. E continuano a lanciarsi, senza distinzione -credetemi- fra prima e seconda Repubblica. Non eravamo certamente noi cronisti o editorialisti politici ad inventarci le ostinate e sempre infelici corse al Quirinale del povero Amintore Fanfani, quando erano ancora in carica presidenti della Repubblica eletti da pochi anni. Né ci inventavamo, fra le altre, le aspirazioni quirinalizie di Aldo Moro, o di Giulio Andreotti, o di Ugo La Malfa,o di Giovanni Spadolini. Che non per questo diventavano agli occhi nostri, e dei cittadini, meno degni di rispetto. Né attentavano alla salute e al decoro dei presidenti della Repubblica dei quali aspiravano, a torto o a ragione, di diventare i successori. Capisco, per carità, il fastidio che può provare Fini quando scriviamo e parliamo, come si è tornati a fare in questi giorni, delle carte che egli vorrebbe o potrebbe giocare per il Quirinale. E delle interpretazioni che, in questa prospettiva, si danno a questa o a quella sua iniziativa o dichiarazione, compresa quella recentissima sulla «ipotesi tutt'altro che remota» di un'elezione di Berlusconi in considerazione -ha spiegato- della sua «popolarità». Che peraltro, per quanto indiscussa, non è un requisito sufficiente per l'elezione del presidente della Repubblica con l'attuale sistema, cioè da parte non del popolo ma del Parlamento. Dove la popolarità deve coniugarsi di solito con la capacità del candidato di raccogliere appoggi trasversali rispetto agli schieramenti di governo e di opposizione. Ma, per non andare a dichiarazioni di qualche tempo fa dell'allora segretario del Pd Walter Veltroni, non più tardi di mercoledì scorso a candidare o a sponsorizzare Fini al Quirinale non è stata la fantasia indiscreta o insolente di qualche cronista o editorialista, ma una qualificata fonte politica, per quanto espressa in forma giornalistica. È stato un quotidiano di partito, che si chiama Europa e condivide con l'Unità fondata da Antonio Gramsci la rappresentanza del Pd, a titolare in prima pagina: «Solo Fini può puntare al Quirinale». Era la conclusione, o l'auspicio, di un ragionamento sull'ennesima e ruvida polemica esplosa tra il presidente del Consiglio e il presidente della Camera: quella sulle modalità di voto in Parlamento.

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