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Indagine sfortunata. Pm e investigatori siano ora più umili

La polizia nel parco della Caffarella, sul luogo dove è stata stuprata la 15enne romana

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Certo, quando il delitto suscita grande allarme sociale cresce in proporzione la probabilità di errori da parte dell'apparato repressivo. La politica e l'informazione, io che faccio parte di entrambe per onestà intellettuale, affermo che, nelle situazioni di sdegno popolare diffuso, fanno la loro parte in negativo. Montano il clamore, finendo per pressare psicologicamente investigatori, pubblici ministeri e gip, stimolandone perigliose pulsioni verso la giustizia spettacolo. E talora – si pensi a Filippo Pappalardi, il babbo dei poveri fratellini di Gravina - la mancanza di umiltà degli inquirenti, incapaci di ammettere sviste ed errori, fa prendere paura al cittadino umanamente portato ad identificarsi emotivamente con la vittima dell'errore giudiziario. Nella vicenda dei due romeni arrestati per l'orribile violenza della Caffarella, questore e pm potevano rimarcare il fatto che il sistema delle garanzie, da loro stessi azionato, aveva ben funzionato, tant'è che la prova del dna scagionava i presunti colpevoli. Onore agli stessi inquirenti, dunque. Ma allora a che è servito proclamare che l'impianto accusatorio non arretrava di un millimetro, corroborandolo non con prove, bensì con supposizioni, verbi al condizionale, ipotesi da film, facendo del «biondino», un pregiudicato ladro di polli, una sorta di Rocambole? A cosa è servita l'impuntatura, se non ad accrescere la sfiducia e il timore nei confronti della macchina giudiziaria? Ieri, l'ultima disperata postilla all'impianto accusatorio che non c'è più: il «biondino» avrebbe inteso fuggire in Romania in autobus. Nientemeno! E perché no in tramway o, meglio, in monopattino oppure in bicicletta che fa tanto bene alla salute? Suvvia, che prova e che notizia è mai questa? Né prova né notizia, solo l'ennesimo indizio grave di un'indagine sfortunata e che disperatamente si accartoccia su se stessa, mentre i veri responsabili dello stupro e delle violenze hanno avuto tutto l'agio per mettersi al sicuro. Sarà arduo prenderli, ma la difficoltà di recuperare il tempo perduto non può giustificare l'accanimento contro persone testate scientificamente come non colpevoli del delitto di violenza carnale. Non vorrei che le veline, ad uso dei mass media, contenenti le novità sull'uso di autobus per fughe mirabolanti, possano servire per distrarre dal vero scandalo, che emerge da tutta la storia di Karol Racz, «faccia da pugile», e di Alexandru Isztoika Loyos, il «biondino». Il vero scandalo è che Loyos, pregiudicato per vari reati contro il patrimonio, era stato espulso dall'Italia con tanto di decreto prefettizio. Un giudice, mi pare di Bologna, derubricò a carta straccia quel decreto, sentenziando la non pericolosità del microcriminale e il suo pieno diritto a rimanere tra di noi. Da un palazzo di giustizia, insomma, provenne un messaggio chiaro: delinquenti abituali di Romania e di tutto il mondo, unitevi e venite ad esercitare in sicurezza l'arte vostra in Italia. Non a caso, Loyos, da me personalmente interrogato sui progetti futuri, mi rispose: qua, sto troppo bene, non ci penso proprio ad andarmene; partirò, solo quando avrò racimolato un bel gruzzolo.

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