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D'Alema licenzia Di Pietro e Bassolino

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Poi alla prima interruzione pubblicitaria si alza e avvicina un giornalista del Riformista (che pure gli dovrebbe essere molto vicino) quotidiano reo di aver pubblicato un articolo di Andrea Romano che applaudiva Frattini: «Ma perché lo fate scrivere di politica estera?» In fondo il D'Alema che viene torchiato da Enrico Mentana è un D'Alema che torna in tv dopo qualche mese e, anche per questo, definisce il suo nuovo lavoro: «C'è un tempo nel quale bisogna preparare il terreno ad altri che a loro volta si devono fare avanti mentre il compito più importante di chi ha rispetto per la politica è di produrre idee e proposte e questo non è un lavoro piccolo né inutile». Ma è anche un D'Alema che si compiace di se stesso, si crogiola ad ascoltare le proprie parole, gongola nel vedersi nei maxischermi dello studio, avvolto nel suo completo grigio scuro, camicia a righe bianche e azzurre e cravatta di lana blu, accavalla le gambe e incrocia le braccia quando si parla di politica interna, si rilassa quando si toccano temi di politica estera. E si capisce che si trova più a suo agio a parlare del fuoco su Gaza che dei missili che ogni giorno piovono sul Pd. Ma, inevitabilmente, saranno proprio le parole pronunciate in coda alla trasmissione a segnare la sua partecipazione televisiva. Quelle nelle quali tanto per cominciare attacca Di Pietro («È un populista di minoranza») e tira fuori il peggior insulto, almeno dal suo punto di vista. «In Italia - spiega - c'è un populismo di maggioranza, alla cui guida c'è Berlusconi, e uno di minoranza, guidato da Di Pietro». Oddio, orrore, mettere sullo steso piano Di Pietro e Berlusconi. Non solo, ma D'Alema dice di non essere affatto pentito di aver candidato l'ex pm nel collegio blindato del Mugello nel '97 ma avverte: «Il primo a tentare di portarlo in politica fu Berlusconi che gli offrì il ministero dell'Interno». Quindi bombarda l'asse tra Pd e Di Pietro: «L'alleanza con l'Idv è oggi più difficile da declinare politicamente. Il centrosinistra deve ridefinire una sua proposta di governo imperniata sul Pd una grande forza, ma non esclusiva». Mentana chiede: meglio Di Pietro o Casini? Lui s'infastidisce: «Se adesso dico Casini lui poi dice di no, mette le mani avanti, scaturisce la polemica...L'Italia è piena di polemiche oziose». Prende fiato e argomenta: «Le alleanze si costruiscono sui contenuti e registro che in Parlamento con l'Udc nel 90% dei casi siamo d'accordo». Insomma, un altro centrosinistra è possibile. D'Alema lo ha chiaro in testa. Tanto che pensa anche a un Pd diverso. Ammette che «l'opposizione è debole» e che quello del Pd è un «progetto che fatica a prendere quota», «tutti dobbiamo impegnarci di più». E la strada è quella segnata: rinnovare, rinnovare, rinnovare. D'altro canto l'ex premier e segretario dei Ds l'aveva già detto per la classe dirigente nazionale: si deve fare da parte. Ma qui si tocca anche il capitolo Napoli. Dribla la prima domanda sulla Iervolino: «Formare la giunta è un compito che spetta al sindaco». Ma quando si passa al governatore della Campania guarda verso il basso, osserva la punta delle scarpe e comincia quasi parlando tra le labbra: «Io voglio bene ad Antonio Bassolino, e credo che sia ingiusto confinare il suo ruolo alla vicenda dei rifiuti». Si ferma un attimo, alza gli occhi e afferma: «Ma non c'è dubbio che dopo tanti anni c'è bisogno di un rinnovamento». Non mancano due battute salaci. Una è su Fini: «Lo stimo, non sempre però ha la forza di portare fino in fondo le sue idee, anche se spesso sono idee utili come nel caso del voto agli immigrati. Il fatto è che quando Fini ha buone idee non riesce a convincere soprattutto i suoi». E un'altra su Tremonti: «Sembra quelli che vanno in autostrada contromano, ora che c'è la crisi pretende rigore massimo nella spesa» Ma era stato una mezzoretta prima, nello sprint iniziale della trasmissione, che D'Alema era apparso più sicuro di sé, più a suo agio e soprattutto il solito Baffino filo-arabo: «Sono rimasto colpito dalla decisione di Israele di procedere alla invasione di Gaza. È un'operazione - ha concluso - che non lascia intravedere sbocchi». Mentana gli chiede di dire qualcosa di «sionista», e lui ribatte: «Non è interesse di Israele continuare a usare solo la violenza nei rapporti con i palestinesi». Poi però teme di passare per il solito estremista e ci tiene a dire: «Hamas non mi è simpatica». Però spiega: per risolvere la crisi di Gaza serve «negoziare una tregua con quelli che stanno lì perché sono stati votati dai palestinesi», cioé con Hamas, perché «Hamas è una forza reale, e non si distrugge un partito con la guerra». Indossa i panni dell'equidistanza apparente, un ruolo che gli piace sempre più: Hamas «è stata una iniziativa folle e criminale contro gli stessi palestinesi, perché Hamas ha deciso una escalation militare che ha provocato la situazione in cui ci troviamo. Detto questo se si vuole esercitare un ruolo efficace bisogna vedere le ragioni e le responsabilità degli uni e degli altri». L'ex ministro degli Esteri, sempre più affetto dalla sindrome della Farnesina (se ci sei stato, non vedi l'ora di tornarci), sottolinea che quella francese è la posizione più equilibrata. Mentana lo fa rivedere proprio quando era alla guida della diplomazia, mentre andava a braccetto assieme a un deputato di Hezbollah tra le macerie di Beirut; un'immagine che all'epoca, due anni fa, sollevò un mare di polemiche. Ma lui fa notare: «Il 14 agosto andai dai familiari dei soldati israeliani feriti ma, guarda caso, di quell'incontro non esistono immagini. Di quelle invece a Beirut ce ne sono tante e si fanno vedere sempre quelle. Perché in Italia si fa più propaganda che informazione». Nessuna domanda sulla giustizia. Uscendo dallo studio, nel corridoio, se ne duole con Mentana: «Se me l'avessi chiesto t'avrei dato un titolo. Proprio pochi giorni fa ho vinto una causa contro Carlo Nordio. Un processo durato undici anni. La giustizia è lenta, ma quando arriva è giusta». Se lo dice lui.

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