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È il divorzio tra Pd e «Repubblica»

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Conosco Domenici, è una persona per bene, un bravo amministratore, un intellettuale, un uomo schivo. Che cosa l'ha portato a questa forma di protesta che ricorda le esuberanze radicali? Nei giorni scorsi la giunta di Firenze e il suo sindaco sono stati chiamati in ballo per una questione di aree destinate al nuovo campo di calcio. Ieri Domenici ha spiegato tutto al Corriere della Sera e ha annunciato il ritiro dalla vita politica. Non più sindaco ma neppure parlamentare europeo, come sembrava destinato a diventare. Un uomo per bene ha preso questa decisione difficile mal sopportando il dilagare della cultura del sospetto. Ciò che rende la protesta di ieri particolarmente esemplare, e persino un vero epitaffio della sinistra, è che Domenici ha rivolto la sua indignazione verso il quotidiano più letto dalla sinistra radical, dalla sinistra militante, dallo stato maggiore del partito veltroniano. Appena due giorni prima, al medesimo quotidiano, Walter Veltroni aveva affidato la sua dichiarazione di guerra a D'Alema e la volontà di resistere un minuto di più sulla poltrona traballante di segretario. Il divorzio fra uno dei sindaci migliori della sinistra, a capo della potente Anci, associazione dei comuni italiani, e il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari e diretto da Ezio Mauro equivale a uno «sciogliete le righe» clamoroso. Chi ha vissuto nella sinistra, come ho fatto io, per tutta la vita sa che il quotidiano di De Benedetti e Caracciolo parla come un testamento al popolo di sinistra. Partiva e parte da Piazza Indipendenza, oggi dalla via Cristoforo Colombo, l'incitamento, la frustata, il suggerimento. Il quotidiano costruiva e costruisce la linea e le carriere della sinistra. È lì che si decise che Rutelli avrebbe preso il posto di Amato come competitor di Berlusconi nel 2001. È lì che nacque la presidenza di Ciampi. È lì, per tornare più indietro, che Berlinguer trovava la sponda di Visentini e Scalfari per quel «governo degli onesti» che avrebbe dovuto liquidare Craxi e persino il beneamato De Mita. L'incrocio fra quel giornale e quella catena giornalistica e il popolo e lo stato maggiore della sinistra ha accompagnato tutta la politica della Prima Repubblica e della Seconda. Il partito dei magistrati ha trovato nel foglio debenedettiano il suo principale sponsor e Berlusconi il suo più acerrimo nemico. Un leader della sinistra sponsorizzato dalla Repubblica faceva carriera. L'ostracismo del quotidiano, e un po' meno del settimanale L'Espresso, sanciva la caduta. Un altro al posto di Domenici avrebbe scritto una lettera indignata e avrebbe subito la risposta supponente. Leonardo no. Si è messo in macchina con il suo capo-gabinetto e una segretaria e da Firenze ha raggiunto la Colombo, ha scelto un palo davanti a un parcheggio e si è fatto attorcigliare da tre fili di catena l'intero giro-vita. Tv e cronisti l'hanno assediato di domande, io gli ho portato la mia amicizia, lo ha fatto anche Gianni Cuperlo mentre Ezio Mauro, forse fuori sede, non si è visto. E Domenici continuava a spiegare che protestava contro il massacro mediatico-giudiziario e ogni sua parola scriveva il termine «fine» a un lungo matrimonio di sinistra. È proprio una stagione nuova quella che si sta aprendo dal lato opposto di Berlusconi. Il Pd scopre che intere sue amministrazioni sono sotto la mannaia della magistratura, dilaga la cultura del sospetto, i leader cercano in queste ultime ore di fare quadrato mettendo a freno persino antipatie decennali ma i buoi sembrano tutti scappati. La verità è che il dopo voto non ci ha consegnato una sinistra in armi (metaforiche) contro Berlusconi, ma una sinistra avviata verso la più distruttiva guerra civile interna. Finora lo scontro aveva riguardato la nomenklatura. Quante volte abbiamo scritto di D'Alema, Rutelli, Veltroni, Parisi? Ora la guerra civile invade tutto l'accampamento e Domenici ieri, con il suo gesto, ha spiegato che investe direttamente il vero stato maggiore, il potere mediatico-politico che ha tolto autonomia alla sinistra e l'ha trasformata in una bolla elettorale eterodiretta da un gruppo giornalistico. Ora può succedere tutto. Cioè anche nulla. Talmente profonde sono le ferite, così provate le truppe e i generali, che è facile immaginarsi che i guerrieri chiedano un momento di tregua. Ma è possibile una tregua quando tutto l'accampamento è in fiamme? Credo di no, credo che alla sinistra toccherà bere fino in fondo l'amaro calice e scoprire, se ancora ne è capace, che serve un partito non inventato, una classe dirigente nuova, una cultura autonoma dai magistrati e dai giornalisti.

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