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Ma l'antisemitismo fu il frutto dell'alleanza con Hitler

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Conl'auspicio di una memoria condivisa che non faccia sconti: tutti coloro che sono in qualche modo figli o nipoti delle ideologie hanno infatti da pagare un «conto». E dunque hanno, in qualche modo, l'obbligo di raccontare e di raccontarsi. Nessun rinnegamento, nessuna svendita, anche perché non si buttano via pezzi di vita: ma assunzione critica - ed alta - di responsabilità, in vista della costruzione di una comunità operosa e concorde, in cui la rivendicazione identitaria forte non significhi discriminazione e persecuzione. La verità, dunque: ma in quanti la vogliono «davvero»? La verità, entrando nel merito del dibattito che anima in queste ore la politica e la cultura italiane, «è» che Almirante ha scritto per La Difesa della Razza parole di virulento antisemitismo. Possiamo contestualizzare, certo, entrare in «quella» storia, collocare certe espressioni in «quella» atmosfera, scavare in «quella» realtà già proiettata verso la guerra civile europea, motivare, argomentare ecc. E tuttavia scripta manent, parola su parola, pietra su pietra. E Fini, condannando, non ha ucciso il «Padre». Perché di quel «Padre» conosce anche l'altra verità. E cioè che nel dopoguerra, Almirante prese - e in modo fortemente critico e autocritico - le distanze da ogni forma di razzismo e antisemitismo e che, negli anni dell'odio e del piombo, pur crocefisso all'arco costituzionale, continuò a lavorare per la democrazia, per la libertà di tutti, per la pacificazione nazionale, mettendo ai margini con durezza (ed era difficile farlo in mezzo a tanti «camerati» pestati o uccisi) quella destra radicale che in lui finì per vedere addirittura un antifascista, addirittura un obbiettivo da abbattere. Forse non è «politicamente corretto» ricordarlo, ma le cose stanno in questo modo. Quanto a fascismo e antisemitismo, basta rileggere il celebre saggio di Renzo De Felice (Storia degli ebrei sotto il fascismo, Einaudi, 1961), per mettere a fuoco un quadro quanto meno complesso. E cioè quello di un regime che, prima di allearsi con Hitler, aveva avuto ebrei nei suoi ranghi (ce n'erano stati tra i sansepolcristi e tra gli squadristi - duecento - ed era ebreo Aldo Finzi, sottosegretario agli Interni nel primo ministero Mussolini), lanciato sarcastici strali contro le teorie razziste, isolato un fanatico come Giovanni Preziosi, direttore del foglio antisemita La Vita Italiana. Bene, ecco che quel regime che aveva goduto anche di simpatie presso buona parte del mondo ebraico internazionale, nel '38, per trovare una perfetta sinergia con l'alleato tedesco, si appiattisce sulle teorie crociuncinate, sposandone materialismo biologico e antisemitismo, fino al Manifesto e alle leggi razziali del 1938. Ora, se è vero che la maggioranza degli Italiani - e dei fascisti - non si convertì a un antisemitismo che le era estraneo, è altrettanto vero che gli intellettuali si segnalarono spesso per opportunismo e per viltà. Non tutti: ad esempio, due «pezzi grossi» della cultura fascista come Gentile e Marinetti (che sarebbero stati fedeli al Duce fino all'ultimo: e Gentile avrebbe pagato questa fedeltà con la vita) non sposarono mai le tesi antisemite. Il famoso endocrinologo Nicola Pende fu invece uno degli estensori del Manifesto degli scienziati, pubblicato il 14 luglio 1938, che «aveva lo scopo di offrire la piattaforma scientifico-ideologica all'antisemitismo di Stato» (De Felice) e due illustri medici come Padre Agostino Gemelli, fondatore e rettore dell'Università Cattolica di Milano, e Luigi Gedda, futuro fondatore dei Comitati Civici (1948) e presidente dell'Azione Cattolica Italiana (1951-59), si mostrarono in sintonia con la «genetica» di Regime. Per non parlare di uno scrittore come Guido Piovene che, recensendo sul Corriere della Sera (1° novembre 1938) il libro di Telesio Interlandi Contra Judeos scrisse tra l'altro: «Gli ebrei possono essere solo nemici e sopraffattori della nazione che li ospita. Di sangue diverso e coscienti dei loro vincoli, non possono che collegarsi contro la razza aliena». Mentre il futuro capo Dc, Amintore Fanfani, sulla Rivista internazionale di scienze sociali (maggio 1939), avrebbe sentenziato: «Per la potenza e il futuro della nazione gli italiani debbono essere razzialmente puri».

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