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Bossi e Di Pietro, i nuovi "rompi"

Di Pietro e Bossi

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Lega Nord e Italia dei valori. Tutti e due i partiti hanno raccolto più voti rispetto ai risultati di due anni fa. La Lega, alleata col Pdl, ha raddoppiato i consensi: nel 2006 conquistò il 4,6 per cento delle preferenze alla Camera (al Senato il 4,4%), mentre nel 2008 sale all'8,29 per cento (a Palazzo Madama raggiunge l'8%). Stesso discorso per l'Idv, l'alleato del Pd: nel 2006 conquistò il 2,3 per cento a Montecitorio (2,8 al Senato) e ora è al 4,3 per cento (4,3 al Senato). I numeri parlano chiaro: i due parititini hanno diritto a pretendere qualcosa in più. E i loro alleati, ora, devono ascoltarli sul serio, scendere a compromessi, mediare tra più pensieri. Bossi e Di Pietro hanno più di una cosa in comune, anche se l'ex pm rifiuta l'idea di essere la Lega del Pd. Sono alleati autonomi, prima di tutto. Non si scioglieranno mai nei rispettivi «partitoni». Il federalismo. E, cosa più rilevante, fanno stare in ansia i loro rispettivi, ormai ex, candidati premier. Dopo i recenti risultati Di Pietro non ha voglia di diventare qualcosa di marginale al Pd. Ma il partito di Veltroni cerca di limitarlo, in particolare sul tema che gli è più caro: la giustizia. «Anche nel Pd Mani Pulite fa paura», ha detto proprio Di pietro qualche settimana fa. Le paure arrivano da una corrente dei Democratici che lo placcano: i dalemiani, scottati dal caso-Unipol. E quando lo stesso ministro delle Infrastrutture di Prodi si è proposto Guardasigilli in caso di vittoria, nel partito di Veltroni si sono alzati gli scudi: «Nel Pd c'è un'anima che mi vuole e una che non mi vuole», ha poi confermato l'ex pm. Di Pietro ha strillato anche poco dopo il risultato elettorale, quando ha dovuto sapere dai giornali dell'idea di un governo-ombra. E ha attaccato: «È un'idea buona solo per gli sconfitti». La stoccata definitiva al Pd, Di Pietro l'ha data qualche giorno fa, quando ha spiegato che «isolarci sarebbe un grave errore, come lo è stato l'ostracismo in campagna elettorale». Il numero uno dell'Idv ora pretende ruoli come «la presidenza degli istituti di vigilanza». Pretende più giustizia, chiarezza sulla questione del conflitto d'interessi, il federalismo, più spazio in Rai e un Pd che non faccia troppi inciuci con l'Udc. Poi la questione del gruppo unico: Di Pietro proprio non ci sta a essere un tuttuno con Veltroni in Parlamento. «Non voteremo secondo ordini di scuderia», ha detto. Anche Silvio Belrusconi avrà il suo cruccio: si chiama Umberto Bossi. Il premier in pectore, ora che ha in mano l'Italia, dovrà contenere le sparate del Senatur. In questo passato recente il leader della Lega ha minacciato di imbracciare i fucili e scendere a Roma, l'odiata Roma. Ma è solo l'ultima delle tante e colorite frasi di Bossi, alle quali Berlusconi è dovuto correre ai ripari. Il Cavaliere si è dovuto sorbire anche una secca replica, quando ha ipotizzato il voto amministrativo agli immigrati. Neanche a parlarne. Il Carroccio vuole fare subito una legge sull'immigrazione che sia più severa e preservi il Nord (altro tema che mette in imbarazzo Berlusconi). Bossi, oltre le riforme («facciamole oppure ci incazziamo»), alla lotta agli immigrati, a una pressione fiscale più bassa e al federalismo, ora che ha i voti pretende più poltrone. Il Pdl ora deve far i conti per l'assegnazione della presidenza della regione Lombardia. E così, essendo il partito che ha deciso la vittoria in più di una regione, la Lega sta spiazzando Berlusconi e alcuni suoi piani.  Anche per costruire il governo. Bossi ha chiesto due ministeri in particolare: quello dell'Interno con Maroni ministro e quello dello Riforme con lui a capo. A questi si potrebbero aggiungere l'Agricoltura con Zaia dietro la scrivani. Ma sono i primi due dicasteri a solleticare i leghisti, che in questo modo controllerebbero il cammino verso il federalismo e la lotta all'immigrazione. I ministeri per la Lega sono fondamentali. Per fortuna di Veltroni, Di Pietro non può pretenderli.

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