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«Noi, condannati a restare precari»

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Ma mica trascorre tutta la giornata dietro le provette, o a incaponirsi per far funzionare uno strumento obsoleto, che si è rotto. Può capitargli di sostituire il prof a lezione, o di affiancarlo negli esami. E poi c'è da controllare l'esperimento avviato la sera prima, da insegnare come si fa a un nuovo studente, da contattare il collega di un'altra università per discutere del lavoro che si porta avanti insieme. «Così faccio sera, e ogni giorno è uguale, fino a quando finisce il mio progetto e l'ateneo mi metterà alla porta», dice Sergio Brutti, laureato in Chimica nel 2000, dottorato di ricerca nel 2003, autore di 23 pubblicazioni, ora responsabile al dipartimento di Chimica de «La Sapienza» di Roma di un avanzatissimo progetto. È uno delle migliaia di precari italiani, tutti con anni di esperienza, ma con contratti co.co.co., co.co.pro., borsa di studio, assegno di ricerca, della durata varia quanto gli stipendi (dai 900 ai 1500 euro al mese). «Certo, abbiamo passione - incalzano Priscilla e Judith - ma dopo sette-otto anni di esperienza postdottorale ci sembra una presa in giro essere considerati i giovani». All'apertura dell'anno accademico dalle finestre della facoltà hanno fatto scendere striscioni di protesta. «I concorsi sono rari e regolati in modo tale che la scelta del vincitore è demandata al giudizio della commissione dell'Università bandente. In pratica, una cooptazione. Mussi aveva proposto nuove norme, ma non sono uscite in Gazzetta Ufficiale e ora chissà che fine faranno», allargano le braccia. Poi sciorinano cifre disarmanti: «La scorsa Finanziaria ha disposto straordinariamente il reclutamento nazionale di mille ricercatori. Significa che alla Sapienza se ne avranno 52. Da dividere tra 200 discipline. Quante speranze abbiamo?».

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