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«Ma la responsabilità di questo scempio è di noi napoletani»

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Mi hanno detto che tutto questo accadeva perché il Presidente della Repubblica sarebbe finito a Villa Rosebery e quindi avrebbe trascorso qualche giorno nella sua città. Poi siamo andati un po' più in profondità: con mio fratello abbiamo percorso quello che è l'inferno del pattume. Abbiamo attraversato le zone spaventose in cui la "monnezza" si agglomera, si moltiplica esponenzialmente. È ovvio che questi spettacoli sono stati già visti da noi napoletani, specialmente da uno della mia età innumerevoli volte: non è affatto una novità questo tracollo. Ricordo che nel 1973 giravano a Napoli i guappi e c'era il colera, che aveva provocato più di trenta morti, la città era infestata dal sudiciume e poi andando avanti nel tempo, negli anni Ottanta si rinnovava questa infestazione e poi ancora negli anni Novanta e poi nel Duemila e di nuovo adesso. Non sapevamo che le strutture amministrative e politiche poi concentravano queste migliaia, o addirittura milioni di tonnellate di immondizia nelle ecoballe intorno a Giugliano. Questa è una novità che mi ha veramente sconvolto: purtroppo devo riconoscere che come napoletano mi vergogno di non essere lì a pulire le strade, può sembrarvi una battuta, un paradosso ma io ero a Firenze durante l'alluvione, ero inviato da «La notte di Milano». Arrivai in questa città in cui (altro che immondizia) il fango putrefatto e maleodorante stava facendo annegare uno dei gioielli dell'architettura mondiale e lo spettacolo che sorprese noi giovani o giornalisti meno giovani di me di tutto il mondo furono i fiorentini. Di qualsiasi categoria sociale e di qualsiasi età fossero, ripulivano la loro città nel silenzio più assoluto: si vedevano giovani, anziani, professionisti, operai, liberare le loro strade dalla melma maleodorante che arrivava fino all'inguine nel silenzio. Fu un'esperienza emozionante e commovente nel tempo stesso. Questi cittadini amavano e amano la loro città: e pensare che un piccolo gruppo di boy-scout dirigeva il traffico nel più assoluto rispetto del ruolo. Ora quanta responsabilità abbiamo, popolo napoletano, per quanto accade? Una responsabilità immensa, in primo luogo perché tutto ci appartiene, ci appartiene la città con i suoi miasmi, ma anche la città con i suoi bagliori, ci appartiene la vita dei nostri concittadini che siano camorristi, politici, disoccupati, ricchi o poveri, tutto ci appartiene. Ebbene, noi non siamo capaci appunto di trasformare questa appartenenza in orgoglio, in vigilanza, in dignità. Giorgio Albertazzi ha amato come tutti i toscani questa nostra città, però al tempo stesso era disperato per la desolazione, per l'incongruenza, l'incapacità di sentirci noi napoletani un popolo, cittadini e di assumere noi la responsabilità della vita, di questa meraviglia che potrebbe essere effettivamente una delle città più ricche del mondo, oltre che una delle più amate, visitate e narrate. Solo che appunto tutti, dagli intellettuali agli operai, poi scappano. Diceva Eduardo: «a Napoli fujtevenne» e lui se ne andò. Se ne è andato anche ferito irrimediabilmente il nostro più grande scrittore, Raffaele La Capria. Un altro immenso narratore partenopeo, Domenico Rea, con testi come «Gesù fate luce» o «Spacca Napoli» ci aveva raccontato della ignavia di noi napoletani. Io mi sento responsabile quanto gli altri di questo continuo allignare della tirannia della lagna populista napoletana, come la descrive La Capria. Ecco, io mi sento parte di questa tirannia.

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