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E ora tanti voglio lasciare le coalizioni

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Messa: «Dibattito sterile. Mettiamo insieme chi vuole davvero cambiare»

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Il primo ad intuire e cavalcare il bisogno di modernizzazione del Paese fu proprio Berlusconi con la sua discesa in campo del 1994. La costruzione di una sorta di partito liberale di massa, per quanto di plastica secondo alcuni, ha costretto gli eredi delle tradizioni democristiane e comuniste a fare i conti con un pensiero (quello liberale, appunto) fino ad allora considerato marginale. Il riformismo per la verità non ha avuto grande successo. A parte il clamore e l'intensità dei dibattiti sui giornali, i risultati sono stati minimi. Si è molto privatizzato e poco liberalizzato. Tolti alcuni fardelli, se ne sono aggiunti altri. Ancora, è stato il leader di Forza Italia a modificare sostanzialmente la Costituzione. La sua interpretazione «presidenzialista» della legge maggioritaria seguita ad i referendum del '93 ha reso possibile quel bipolarismo che tanto accende gli animi dei suoi difensori e dei suoi avversari. La sola forza di Berlusconi non è stata sufficiente però per compiere per intero il processo di modernizzazione dell'economia e delle istituzioni italiane. Il sistema politico risulta ancora bloccato, in un'infinita (speriamo solo apparente) transizione. L'ultima modifica della legge elettorale ha poi, se possibile, peggiorato la situazione. Il potere di veto delle forze radicali è aumentato, come l'impotenza dei partiti «centristi» (dai Ds a Fi). Il federalismo invece di rappresentare una soluzione si è rivelato, con la modifica del titolo V, una iattura peggiore del vecchio centralismo. Non c'è investimento anche internazionale che non sia bloccato dai veti o dalle lentezze burocratiche degli enti locali. Per non parlare della diffusione di sprechi e corruzione proprio nelle amministrazioni regionali, provinciali e comunali. Invece di abolire le province, se ne sono aggiunte altre e con esse anche le aree metropolitane. Il processo decisionale finisce per essere così del tutto disintegrato tanto a livello centrale che a livello periferico. È davvero merito del nostro tessuto produttivo costituito da una molteplicità di piccole e medie imprese se il Paese ha retto il deficit politico di quest'ultimo decennio. Il problema è che questo rischia di non bastare più. L'apertura del mercato reclama aziende di dimensione maggiore e con un altissimo grado di competitività. Dall'energia alla produttività del lavoro, alle infrastrutture, il nostro gap con il resto del mondo è notevole e tende ad aumentare. Per questo, la quasi totalità degli analisti insiste con la necessità delle riforme e della concorrenza. Non è un vezzo intellettuale, è una necessità del Paese. L'idea dei volenterosi nasce da considerazioni come queste. Dalla constatazione, non lieta, della difficoltà della politica - tutta - di far seguire ai propositi migliori le decisioni conseguenti. Non è non vuol essere un ennesimo contenitore di scontenti o di guastatori. L'idea è quella di tentare uno sforzo riformista in più, oltre le «gabbie» di partito e di coalizione e richiamando alle armi molte di quelle forze civili del Paese che, pur fuori dal Parlamento, possono e vogliono dare un significativo contributo al processo legislativo. È un esperimento e come tale privo di precedenti. È difficile prevederne gli esiti. Difficilmente sarà quella sorta di «baraccone mediatico» che ha insinuato Eugenio Scalfari. È più probabile che sia una positiva (e collettiva) spina nel fianco dei governanti ignavi. Non contro un governo o una maggioranza, né tanto meno contro l'intero sistemo politico. Ma per le riforme possibili e doverose. Per uno Stato meno invadente e più efficace, più liberale e di conseguenza più giusto. Al governo, al parlamento, alle forze politiche, i volenterosi chiedono disponibilità di ascolto e di confronto. Il prossimo 29 gennaio si danno appuntamento a Milano, per vedersi negli occhi e provare a fissare obiettivi minimi di un'iniziativa che non può permettersi di essere velleitaria. Con la

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