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Il partito perde «pezzi» e la sua leadership traballa

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Troppa. Per il Piero della Quercia fu quasi un plebiscito: la sua ricandidatura alla segreteria del partito venne confermata con il sessanta per cento dei consensi, sfiorando il precedente «quoziente voti» del «lìder Maximo» D'Alema. Un successone. L'ultimo, se non teniamo conto del risicatissimo vantaggio ottenuto anche grazie ai Ds alle elezioni di aprile. Da allora, Fassino ha assunto da un lato un ruolo estremamente critico nei confronti del suo governo, dall'altro ha cominciato a perdere pezzi all'interno del suo partito. Con il duplice risultato che, dopo aver scelto (ufficialmente di comune accordo con i dirigenti dei Ds) di non entrare a far parte del Prodi Bis per occuparsi personamente di via Nazionale e del futuro (o futuribile?) Partito Democratico, ha perso terreno su entrambi i fronti. Da qualche tempo Piero è un uomo «sotto tiro», politicamente parlando, s'intende. Il Professore, sempre timoroso dell'influenza dei partiti sul suo esecutivo dopo essersi scottato le mani nel '98 con il presunto «tradimento» dalemiano e desideroso di costruirsene in fretta uno che lo possa rappresentare (il Pd, appunto), comincia a considerarlo un elemento di disturbo, tanto da provare ad escluderlo dal vertice della settimana prossima a Caserta. E lo staff del premier è forse più diffidente del premier stesso. Il tentativo di tener fuori il segretario di via Nazionale dall'incontro campano è fallito grazie alle pressioni che Fassino - assieme a Prc e Pdci - ha messo in atto. Prodi, infatti, voleva solo una sorta di consiglio dei ministri straordinario in trasferta in cui il capodelegazione dei Ds era colui che ricopre attualmente tre cariche: ministro degli Esteri, vicepremier e presidente della Quercia. Ma il segretario si è autoinvitato e ci sarà. I problemi più grossi, comunque, Fassino ce li ha con i suoi. I Ds non riescono più ad «aggregare», sembra esaurita la stagione delle vittorie elettorali, c'è una continua fuga. Verso sinistra e verso destra. Ha cominciato Pietro Folena, passato un anno fa a Rifondazione e seguito da Antonello Falomi. A febbraio il segretario ha dovuto incassare una nuova «fuga» conclusasi questa volta con l'esodo verso la Rosa nel Pugno. Dopo Lanfranco Turci e Biagio De Giovanni, anche il deputato operaio Salvatore Buglio ha annunciato l'abbandono per la candidatura nel nuovo soggetto radical-socialista. Una scelta dettata da divergenze in relazione al percorso adottato per la costruzione del Partito Democratico. Una nuova «cosa» di sinistra che, secondo i dissidenti, rischia di essere una sommatoria burocratica, una specie di riedizione del compromesso storico. E andiamo avanti. Tre settimane fa, dopo la presa di posizione di Fassino contro la concessione del diritto di adozione di figli alle coppie omosessuali, il leader di Arcigay Aurelio Mancuso ha annunciato di voler stracciare la tessera in polemica con i dirigenti del Botteghino. Il Piero della Quercia, in una lettera al Riformista dal titolo «Cari compagni gay non vi ho tradito», ha però mantenuto il punto: «La legittima aspirazione di una coppia adulta ad adottare non deve prevalere sull'interesse di colui che viene adottato». Nel merito non si può non essere d'accordo con lui, ma per il partito sono piccole emorragie che si aggiungono, goccia dopo goccia, a quelle grandi. Come è stata la defezione di Nicola Rossi, «guru» dell'economia dei Democratici di Sinistra, laureato alla London School of Economics e punta di diamante dell'ala riformista del partito. Scontento di riforme annunciate e mai attuate, malgrado a chiederle con la voce più alta degli altri fosse proprio Fassino insieme con D'Alema, Rossi ha deciso di non rinnovare la tessera dal primo gennaio pur restando nel gruppo dell'Ulivo a Montecitorio. E se il riformista diessino lascia, Peppino Caldarola dice che non lo segue, ma «per ora, unicamente perché aspetta «la battaglia congressuale». Anche se, precisa, «sono pessimista perchè ormai i Ds sono assediati da una logica familistica che rende ogni

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