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di ELISA SCHIANCHI «ANDIAMO verso un congresso che non ha un approdo.

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Resta la necessità di un cambio di gruppo dirigente, compreso il segretario del partito Piero Fassino». Poche parole, che pesano tante. È quasi una dichiarazione di guerra pronunciata dal dalemiano Peppino Caldarola nel bel mezzo della riunione dei sostenitori della terza mozione della Quercia. Il documento vede tra i firmatari lo stesso Caldarola, Gavino Angius e Massimo Brutti e che si oppone alla nascita in tempi rapidi del Partito democratico puntando, invece, ad una federazione delle forze dell'Ulivo che consenta ai partiti di mantenere la propria posizione e identità. Caladarola non è un deputato qualunque, è molto vicino a Massimo D'Alema, del quale peraltro è stato portavoce. Oggi, è chiaro, esprime il suo pensiero ma è difficile immaginare che sia tanto distante da quello del ministro degli Esteri. Dunque, Caldarola picchia giù duro e continua sostenendo con fermezza che «cinque anni alla guida di un partito sono troppi. Una selezione di dirigenti fondata sulla fedeltà personale uccide la democrazia di partito. Non si può più vivere alla giornata, in perenne transizione». L'accelerazione, secondo l'ex direttore de L'Unità, «a creare turbamento anche nei partiti che sostengono la maggioranza». E anche il Paese è confuso dalle polemiche e non si sente rappresentato a dovere: «Lo scollamento c'è e si vede. Ed è un problema serio. Non mi preoccupano le piccole contestazioni ma il fatto che il governo non riesca ancora a chiarire la sua missione al Paese». Gli oltre cento sostenitori, che sono giunti all'Hotel Palatino, plaudono a Gavino Angius, vicepresidente del Senato che, senza mezzi termini, rivendica la volontà del gruppo di dirigenti dei Democratici di sinistra firmatari, di partecipare attivamente al prossimo congresso dei Ds dicendo la loro. «Sì alla nascita di un eventuale nuovo partito - per il leader della terza mozione - ma solo discutendone i contenuti, i come, il percorso, il livello di innovazione, la progettualità». Per il vicepresidente del Senato il seminario di Orvieto non ha risposto a molti interrogativi e ha fatto emergere contrasti evidenti: «Bisognerebbe fermare le decisioni di Orvieto perché il rischio è che si faccia una cosa persino più piccola dell'Ulivo, che derivi dall'assemblaggio puro e semplice dei gruppi dirigenti Ds e Margherita». Il problema, secondo Angius, «non è un referendum sì o no al nuovo partito. Il problema è quale partito, come, attraverso quale percorso, quale coinvolgimento di forze». A proposito di una sua possibile candidatura alla segreteria risponde vago: «Non ne abbiamo discusso - risponde - e non so ancora se lo faremo. Io sto raccogliendo gli umori di un partito che vuole discutere, che vuole dire la sua ed essere protagonista in questa vicenda congressuale. Per esempio, per noi il riferimento ai principi di laicità è imprescindibile anche perché pensiamo che l'appartenenza al Partito socialista europeo da parte del nuovo soggetto politico non debba essere messa neanche in discussione». Anche il senatore diessino Massimo Brutti critica la prospettiva dell'addio ai Ds: «Sarebbe inaccettabile che dal prossimo Congresso venisse il mandato a sciogliere i democratici di sinistra. Noi crediamo che non vi siano affatto oggi condizioni politiche tali da legittimare questa scelta irreversibile». E che i rami della Quercia non vadano d'accordo l'un l'altro lo dimostra la polemica forte rinfocolata da Cesare Salvi della Sinistra Ds: «Il Partito Democratico non è ancora nato e già gli scontri si sprecano. La verità è che i dirigenti non vogliono riconoscere ciò che è sotto gli occhi di tutti: il Pd invece di riunire i diversi e sparsi filoni del riformismo italiano, divide ulteriormente la frammentata coalizione di centrosinistra».

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