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di MAURIZIO GALLO UN'AVVENTURA, un sogno.

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Un'occasione straordinaria. O, al contrario, un frullato di frutti acerbi che forse è meglio lasciare maturare sui rispettivi alberi. Lo strumento indispensabile per vincere le prossime elezioni, una versione dell'Ulivo permanente, codificata e organizzata dietro un simbolo unitario. No, di più: il partito del futuro, l'«entità» politica che darà un senso al sistema elettorale maggioritario e che accoglierà sotto il suo ampio «ombrello» gli ex democristiani e gli ex comunisti in una sorta di compromesso storico del duemila dopo l'11 settembre della partitocrazia. E ancora. Il coronamento ideale del bipolarismo alla ricerca di un sistema «americano» ispirato al kennedismo. La semplice fusione dei due principali protagonisti della coalizione di centrosinistra, oppure qualcosa di diverso nato dalla consapevolezza che i valori comuni sono più importanti dei «distinguo», che il successo alle urne è importante ma l'Italia ha bisogno di una nuova «cosa» dei moderati non soltanto per governare ma per ricominciare a credere nella politica e, quindi, per partecipare. Ma un partito dei moderati di centrosinistra o di sinistra-centro? I punti interrogativi sono tanti, più di quanti ne consenta la grammatica della «polis». I punti di vista, di più. Le paure si moltiplicano con il tempo. E anche i tempi sono un'incognita, una barriera tra esponenti delle formazioni chiamate a fondersi. Una discriminante. «Farlo subito dopo le elezioni», disse a gennaio Francesco Rutelli. «Milioni di italiani ci chiedono di decidere adesso, di procedere subito e ovunque alla costruzione del partito democratico», disse il Professore sempre otto mesi fa. E nei mesi successivi alla consultazione di aprile, fino al seminario umbro, il premier Romano Prodi ha più volte premuto sull'acceleratore per far nascere presto, anche se usando il forcipe, questo «partito-non partito». Che non deve essere «un'alchimia» (sempre Rutelli) ma «il più grande cambiamento della politica italiana». Ma qualcun altro ha frenato e messo «paletti» (vedi D'Alema e non solo) sulla leadership, sul metodo per raggiungerla, sul coinvolgimento dei cittadini. La sinistra dei Ds si è arroccata, disertando Orvieto e minacciando la scissione e l'uscita dalla Quercia. «Parole importanti quelle di D'Alema, certo, ma devono seguire fatti politici. Da Orvieto non vengono le risposte attese», ha fatto notare Fabio Leoni a nome del «Correntone» guidato dal ministro Mussi. «I nodi restano irrisolti, i temi della laicità e della collocazione europea e internazionale, ad esempio. Il Partito Democratico rischia di essere un mero assemblaggio Ds-Margherita - ha osservato ironico uno dei leader delle minoranze diessine, Cesare Salvi - Mi ricorda quando nacque il Psu, il Partito socialista unificato. Noi ci sentiamo sempre più lontani». Questo il quadro a sinistra. Per non parlare di Rifondazione e Comunisti italiani che vedono il Pd come fumo negli occhi: «Se nasce il Partito Democratico scompare la rappresentanza del mondo del lavoro, cioè la sinistra», sentenziò il segretario del Pdci Diliberto. E a «destra», o meglio al centro, non va meglio. A Chianciano i Popolari hanno esposto le loro remore sul progetto post-ulivista e Rutelli, che rischia di essere «sfiduciato» su questo tema, sta tentando di crearsi una maggioranza interna con prodiani e diniani. «Il Partito Democratico non può essere un partito di sinistra - ha spiegato, associandosi alle premesse del vicepremier, Lamberto Dini domenica all'assemblea nazionale di Rinnovamento Italiano - Serve un dibattito serio, approfondito e continuo perché altrimenti le forze del centrosinistra resteranno per anni all'opposizione». E dopo Chianciano Franco Monaco, prodiano della Margherita, oltre ad accusare i Popolari di un «soprassalto di orgoglio identitario», ha ammesso che ci sono problemi e ha sottolineato che se si ascoltassero alcune voci di Chianciano ne scaturirebbe «un Partito Democratico senza slancio, senza pathos e senza appeal». È proprio questa l'impressione dei pochi che seguono

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