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Il vicepremier: Sei stato legittimato solo grazie alle nostre primarie

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D'Alema frena bruscamente, conficcando sull'asfalto i suoi «paletti» e lanciando un messaggio preciso al premier. Il Professore replica «ecumenico», ammorbidendo i toni, promettendo apertura e unità e assicurando che il nuovo partito del centrosinistra sarà basato sulla condivisione e non sull'esclusione. La «bozza» del partito democratico disegnata a Orvieto si delinea soprattutto alla luce di questo scontro sotterraneo e silenzioso fra presidente e vicepresidete del Consiglio. Non il primo. Forse nemmeno l'ultimo. Ma certamente quello più importante per una parte della coalizione di maggioranza, per il suo futuro e le prospettive dell'esecutivo che offrirebbe una «cosa» che renderebbe permanente, organica e funzionale al governo del Paese l'albero ulivista utilizzato con successo per scopi elettorali. Di fronte alla fretta e al tentativo di nuove aperture di Prodi, ieri il ministro degli Esteri e presidente dei Ds è stato meno sibillino del solito: «Il partito nuovo di cui l'Italia ha bisogno - ha spiegato nel suo intervento al seminario umbro - deve essere un partito di cittadini. Le primarie sono state un momento straordinario di allargamento del campo democratico. Però so che se non ci fosse stata la sezione dei Ds o il circolo della Margherita, le primarie non si sarebbero potute svolgere». «Tradotto», il pensiero dalemiano è che sì il Professore è stato legittimato dalle primarie, «merito» però ascrivibile all'organizzazione delle stesse per opera dei due principali partiti della coalizione. Non solo. L'affondo è stato in alcuni tratti ancora più diretto: «Abbiamo bisogno di una leadership forte - ha continuato D'Alema - non mi convince un partito dei cittadini e del leader. L'Italia è una cosa diversa, in mezzo ci sono sindacati, associazioni, categorie, gruppi di interesse. Dobbiamo unire le grandi famiglie democratiche e questo determina un processo nuovo di riorganizzazione». Infine la precisazione sui «tempi» del parto della nuova «cosa». D'Alema ha detto che non c'è un'ora X in cui tutto si scioglie e nasce il Partito democratico, ma c'è un processo complesso: «Non serve solo l'appello alla società civile, ma la capacità di organizzare questo processo». Dichiarazioni che sono state come una doccia fredda per il premier, il quale ha reagito assicurando che il Pd rispetterà le sue diverse nature d'origine senza appiattire le sue componenti eterogenee. «Il partito democratico non presuppone nessuna abiura rispetto a nessuna delle culture precedenti, ma è una sintesi di ciò che ciascuno di noi ha condiviso», ha detto ieri. La nuova organizzazione politica che prenderà il posto dell'Ulivo dovrà essere, dunque, «aperta e con una forte spinta dal basso», vera, «e non solo un'immagine elettorale», unitario e «non una semplice federazione», riformatore ma «non necessariamente moderato». E poi ancora «popolare, autonomo e autorevole rispetto alle lobbies e ai potentati, europeista e multilateralista» in modo da promuovere «la pace in una cornice di giustizia internazionale». Chi dovrà guidare il Pd? Finora, e prima della polemica fra D'Alema e Prodi, sembrava quasi pacifico che il leader sarebbe stato lo stesso presidente del Consiglio. Il premier, però, ieri ha fatto riferimento alla sua persona in tremini leggermente differenti: «Non sono un uomo per tutte le stagioni se non altro per motivi anagrafici. La sfida che oggi lanciamo va ben al di là della mia stagione ed esperienza personale», ha precisato a Orvieto. La premessa per una rinuncia? Difficile. Il Professore ha bisogno del Pd. Non ha un suo partito e la maggioranza è da sempre litigiosa e instabile. Più probabile che quello di Prodi sia un tendere la mano a Ds e Margherita (ambedue rischiano gravi e pericolose fratture interne proprio sulla nascita del partito democratico) per ottenere un parto veloce e indolore. Un'alchimia rischiosa. Ma per lui indispensabile.

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