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di FABIO PERUGIA «LA SITUAZIONE è esplosiva».

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Dopo gli incontri francesi di Parigi la Livni era atterrata a Roma poco dopo le 23 di mercoledì in cerca del sostegno all'operato di Israele da parte del governo Prodi. Ma soprattutto per raccontare quale apprensione si vive in questi giorni nello stato ebraico. Nonostante il suo nome d'arte — in realtà si chiama Tzipora — il braccio destro del primo ministro israeliano Ehud Olmert, non aveva mai contemplato la vita politica, preferendo la carriera di avvocato. Nel 1991 aveva addirittura promesso al padre morente che non sarebbe mai entrata in politica, se non per una buona causa. E l'ha trovata. Sposare il realismo politico. Eletta alla Knesset nel 1999, è stata una delle colleghe favorite di Ariel Sharon e tra le prime scelte per formare il partito Kadima, in sostegno del sogno «due popoli in due stati» e del ritiro israeliano da molti dei territori occupati. Ma oggi le cronache mediorientali la spingono in Italia a coloquio con i maggiori rappresentanti politici del nostro Paese per altri motivi. Il confine nord di Israele con il Libano è incandescente e serve una pronta assistenza militare dell'Onu. «L'esercito dello stato libanese non è in grado di fronteggiare la minaccia armata di Hezbollah — dice la Livni — Hanno una forza superiore e credo che l'entrata in gioco della forza militare dell'Onu sarà qualcosa di positivo. Ma la comunità internazionale deve intervenire il più velocemente possibile in Libano, per entrare nella seconda fase prevista nella risoluzione 1701 dell'Onu. È compito delle forze internazionali — continua il capo della diplomazia a Gerusalemme — sostenere esercito e governo libanese». Ma è il tempo il fattore chiave che muove le maggiori preoccupazioni del ministro: «In Libano vige un governo debole che non può agire da solo perché non è in grado di controllare il territorio. Dobbiamo cogliere questa opportunità, ma il tempo stringe. La palla ora è nel campo europeo e apprezzo la volontà italiana di assumersi certe responsabilità». Ma Tzipi Livni, che da sempre lotta per un Israele democratico, patria del popolo ebraico, dove tutti possono godere degli stessi diritti, non transige su un punto per lei fondamentale. «Fino a quando non verranno rilasciti incondizionatamente i soldati, la risoluzione non è applicabile». Il ministro, classe 1958 sembra particolarmente dura su questo argomento. Il rapimento dei due soldati, secondo molti, ha scatenato una reazione eccessiva da parte del governo israeliano. Ma è questione di unità nazionale e passione per un «fratello» rapito: «Per noi che siano una o due le vite poco cambia. Siamo una società piccola, ma come una grande famiglia. Non era possibile fare altrimenti. Non c'era scelta. Anche perché Hezbollah stava costruendo una struttura pericolosa per le vite dei nostri stessi cittadini». Sull'origine del conflitto israelo-libanese la Livni non sembra avere dubbi. Non c'era volontà di attaccare da parte di Gerusalemme, c'era solo il dovere di difendersi da una minaccia. «Noi siamo andati via dal Libano sei anni fa. Quindi non abbiamo nessun conflitto con il Libano. Ma Hezbollah ha attaccato nel nostro Paese e noi dovevamo rispondere. Non siamo mai stati interessati ad occupare i territori libanesi. Vogliamo solamente, abbiamo il bisogno, di vivere in tranquillità». Ma la frangia militare di Hezbollah, di tranquillità non sembra ancora volerne parlare. «Aiuti» militari continuano a fare il loro solito giro tra Siria e Iran, direzione Libano Sud. Poi la guerra dei media. Altra carta che i guerriglieri sciiti continuano a giocarsi, e bene. La Livni ha inoltre assicurato che «quasi tutti gli attacchi israeliani nel sud del Libano erano mirati a basi segrete Hezbollah. Luoghi nei quali solo i membri muniti di tesserino di riconoscimento Hezbollah possono avere l'accesso». E di bambini non ci dovrebbe essere traccia.

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