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La fiducia stoppa le «larghe intese»

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Il governo delle larghe intese tanto caro al presidente delle Repubblica Giorgio Napolitano e a quello del Senato Franco Marini non nascerà, almeno sull'Afghanistan. L'esecutivo, come era largamente prevedibile, ha deciso di porre la fiducia sul decreto di rifinanziamento delle missioni italiane all'estero in discussione a Palazzo Madama aprendo la porta ai 9 senatori «dissidenti» (che hanno annunciato il loro voto favorevole) e chiudendola in faccia alla Cdl che ora, a meno di clamorose sorprese, dovrà votare contro. Dopotutto, come sottolineano anche esponenti della maggioranza, è molto difficile che Berlusconi e i suoi decidano di votare una fiducia che è, innanzitutto, una «fiducia al governo». Così, qualsiasi possibilità di dialogo tra i Poli, è rinviata a data da destinarsi. È toccato al ministro per i Rapporti con il Parlamento Vannino Chiti, dopo un ultimo faccia a faccia con i «dissidenti», annunciare la decisione. Il governo porrà la fiducia su due aspetti del provvedimento: l'articolo 2 (che riguarda il rifinanziamento della missione in Afghanistan) e sul complesso del testo. Una scelta che serve soprattuto a dimostrare la compattezza della coalizione. Ma anche una scelta che, nelle parole degli esponenti della sinistra radicale, impedirà la nascita di maggioranze diverse da quella uscita dalle urne lo scorso 9 e 10 aprile. Era stato il presidente della Camera Fausto Bertinotti, in mattinata, quando il ricorso alla fiducia non era ancora ufficiale, a ribadire il concetto. «I poli - aveva detto partecipando alla tradizionale manifestazione del ventaglio organizzata dall'associazione stampa parlamentare - non devono cedere alla tentazione di reciproche erosioni». La ricetta di Bertinotti è chiara: «È buona misura di igiene per la democrazia che la maggioranza provi a governare per 5 anni con le forze che gli hanno attribuito gli elettori». Tradotto: no a maggioranze variabili. Forse anche per questo, parlando della possibilità di una blindatura del testo sull'Afghanistan, Bertinotti aveva parlato di «una scelta comprensibile in questa situazione», auspicando però anche una riduzione dei voti di fiducia. Così quando poche ore dopo la decisione è diventata ufficiale, tutta la sinistra radicale della coalizione ha espresso la propria soddisfazione. E, mentre il «dissidente» Luigi Malabarba (Prc) cercava di rimarcare che l'accordo sancito ieri non è «una resa, ma un ultimatum al governo», gli altri festeggiavano. «Condividiamo e apprezziamo la scelta - ha commentato il capogruppo di Rifondazione al Senato Giovanni Russo Spena -. In questo caso, infatti, la fiducia non costituisce una forzatura nè tantomeno un ricatto. È invece lo strumento più trasparente per dimostrare che, anche di fronte a divergenze all'interno della coalizione, la necessità di difendere il governo e di non snaturare la maggioranza è l'esigenza prioritaria per tutta l'Unione». Una visione condivisa anche da Pino Sgobio, capogruppo del Pdci alla Camera: «Il ricorso alla fiducia ha l'indubbio vantaggio di creare argine e compattezza attorno all'Unione e di stimolare il governo italiano a fare di più proprio sul terreno della pace. Anche perché è solo con il governo dell'Unione che sarà possibile realizzare concreti processi di pace». Insomma gli appelli al dialogo di Marini e Napolitano sembrano essere caduti nel vuoto. Ma forse è solo un rinvio. A dicembre, infatti, c'è la Finanziaria.

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