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Parla il vicepresidente della Camera: «Il partito lo fondammo in tribuna all'Olimpico»

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«Abbiamo il potere ma non più i valori»

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Rotea gli occhi nel vuoto, si aggiusta la cravatta e si guarda attorno, nel suo ufficio nella zona di Prati a Roma. Gli scorrono le immagini, quelle immagini. Ricorda, il vicepresidente della Camera, un passato nella Dc e tra i primi ad aderire al nuovo soggetto politico che nasceva giusto dieci anni fa. Si gonfia il petto, sospira e dice: «Non posso dimenticare quei giorni del luglio 1993». Come il luglio del '93? An nacque il 29 gennaio '95... «No, guardi, nacque in quella calda estate. E precisamente nacque il giorno dell'assemblea Dc, quella che vide sorgere l'astro politico di Rosy Bindi con la benedizione di padre Sorge». Scusi, e cosa c'entra con An? «C'entra. Quel giorno la Dc decise di consegnarsi al Pds, era giunto il momento di fare l'incontro tra le due chiese, il compromesso storico. Uno sparuto gruppo si oppose». E allora? «E allora ci vedemmo con Fini. Ci incontravamo in Parlamento, ci vedevamo di nascosto in una saletta nella Corea, il corridoio che sta dietro l'aula di Montecitorio. E poi nelle assemblee dei pensionati. E poi anche in tribuna all'Olimpico». Galeotta fu la Lazio... «Sì, in effetti sì». E che vi dicevate? «Che bisognava tentare una sortita. La svolta avvenne poco dopo». Quando Fini si candidò sindaco di Roma? «No, prima. Quando Fini disse che era disponibile ad appoggiare un candidato sindaco cattolico e moderato. Ne parlai con Martinazzoli, che allora era segretario della Dc, e mi disse che era d'accordo». E poi? Che cosa avvenne? «Avvenne che proprio in un'intervista a Il Tempo, Rocco Buttiglione annunciò che si candidava a sindaco. Ma Martinazzoli ci ripensò e fece saltare tutto. Per Fini non ci fu scelta, scese in campo direttamente. Furono giorni travolgenti». Berlusconi disse poi che lo avrebbe appoggiato... «Sì, fu la seconda svolta. Ricordo quella notte del ballottaggio. Ad un certo punto Fini andò in testa su Rutelli, accadde alle due di notte». Pensò che sarebbe diventato sindaco della Capitale? «Per un momento sì. Mi chiamò, arrivai a via della Scrofa e appena mi vide, mi disse: "E mo'? Che famo?". Non eravamo manco quattro gatti, eravamo tre amici. Non avevamo neanche le persone per fare la giunta. Poi, "fortunatamente", Fini perse. Ma avevamo fatto la grande operazione, Gianfranco aveva dato avvio alla rivoluzione che non avrebbe avuto seguito se lui fosse rimasto imbrigliato nella quotidianità della guida della Capitale». Poi venne il primo governo Berlusconi, che ricordo ha? «Il Msi aveva preso il 4% alle elezioni nel '92, a quelle del '94 il 14. Alle politiche del '96 siamo arrivati quasi al 16». Dopo è iniziata la discesa? «Discesa? È stata una progressiva caduta di consenso. Alle scorse Europee siamo arrivati all'11, ma se prendiamo il dato delle provinciali siamo poco sopra il 9. Significa che ci ha abbandonato il 35% degli elettori». Un tracollo sul quale è caduto anche il silenzio? «Non credo sia serio non interrogarsi sulle ragioni di questo calo». Quali sono, secondo lei? «An è nata dall'incontro di tre grandi filoni di pensiero. La destra, che ha abbandonato il fascismo, il cattolicesimo moderato e il pensiero liberale. Ognuno di noi ha ucciso qualcosa di sé per aderire al nuovo soggetto. Se vogliamo sopravvivere non possiamo annacquare i nostri valori, mettere da parte le nostre bandiere, nasconderci». Fiori, andiamo sul concreto. Faccia qualche esempio. «Penso alla perequazione delle pensioni. Sono venti anni che faccio la battaglia per agganciare la previdenza alla retribuzione. Con me c'era anche Fini già da quando era solo un deputato del Msi. E la sinistra, quando era al governo, bocciava sempre i nostri emendamenti. Adesso siamo al governo e subiamo l'umiliazione che a bocciarci è la nostra maggioranza. Non vale solo per me, ma anche per quelli che sono stati missini». In che senso, scusi? «Erano i più intransigenti, feroci giustiziali

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