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L'ERRORE del nostro colto, autorevole, appassionato e passionale amico Franco Cardini mi pare sia d'essersi ...

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Macchiette e mostricciattoli della politica, dove traspaiono con fastidiosa evidenza le vanità dell'esibizionismo minoritario. Con Cardini abbiamo avuto insieme il coraggio della sfida nello stare in altre circostanze dalla parte di quei vinti su cui oggi sputacchia Gianfranco Fini, ma questo non c'impone una coazione a ripetere che ci costringa ogni volta a schierarci con tutti gli sfigati e i dittatori perdenti della storia passata, presente e futura. Siamo stati ancora una volta insieme - contrari o almeno (nel mio caso) assai scettici - di fronte alla guerra di Bush e l'abbiamo potuto dire liberamente su queste pagine. Che Saddam quasi sicuramente non avesse più armi di distruzione di massa, perché gliele avevano già distrutte nei primi anni Novanta, l'aveva scritto sulla rivista di geopolitica Limes un intelligente e coraggioso generale della Nato, Fabio Mini, e l'abbiamo qui riportato. Alla vigilia della seconda guerra nel Golfo ho ricordato anche quanto saggiamente Papa Giovanni XXIII nella sua ultima enciclica Pacem in Terris avesse previsto quarant'anni fa, osservando, a proposito di democrazie e liberazioni esportate con la potenza soverchiante del denaro e delle armi, che «nessuno ama sentirsi suddito di poteri politici provenienti dal di fuori della propria Comunità umana o gruppo etnico»; e che «i popoli, a ragione, sono sensibilissimi in materia di dignità e di onore». E ancora la Pacem in terris ribadiva che «le Comunità politiche, anche se fra esse corrano differenze accentuate nel grado di sviluppo economico e nella potenza militare, sono tutte assai sensibili quanto a parità giuridica e alla loro dignità morale. Per cui, a ragione, non facilmente si piegano ad obbedire a Poteri imposti con la forza». Ora però è prevedibile che questi concetti si potranno applicare a una parte della popolazione irakena anche nel caso in cui la ricostruzione venga più correttamente affidata alle Nazioni Unite. Del resto la rappresentanza dell'Onu a Bagdad è già stata duramente colpita dal terrorismo, così difficile da distinguere (come anni fa a via Rasella) dalla Resistenza. La partecipazione corale degli italiani ai funerali dei caduti di Nassiriya è stato un evento epocale nel lento, esitante, sofferto processo di ricupero della Nazione italiana dal trauma dell'8 settembre 1943, data presunta di «morte della Patria». Da questo evento, pur mantenendo tutte le concettuali riserve sulla complessa catena dei suoi precedenti, penso che non ci sia permesso di dissociarci. Perché sarebbe stupido e autolesionistico, ancor prima che ignobile. Deve sorreggerci la convinzione che non siamo andati laggiù da «vassalli» degli americani, delle loro multinazionali petrolifere e alimentari, ma per aiutare, sia pure con le armi alla mano, un popolo gettato nel caos. In una presenza non da occupatori, non concepita per durare a lungo, i nostri soldati stanno contribuendo a rimettere ordine non solo con le caramelle, come è stato insinuato da irritanti ironie, ma con atteggiamenti diversi, meno imperiosi e impauriti degli americani, che hanno il grilletto facile perché non gli reggono i nervi. I nostri sono più coraggiosi, meno bisognosi di cure psichiatriche, meno esposti alle ossessioni suicide purtroppo così frequenti fra i soldati americani, forse proprio perché più umani, più mediterranei, più buoni. Non sono scappate nemmeno le nostre fiere e tenere crocerossine. Mi commuovo di questi esempi e non m'imbarazza di ritrovarmi una volta tanto confuso nella maggioranza. L'altro giorno, al Chiostro del Bramante, dove s'inaugurava la mostra di Gaudì e del modernismo catalano, ho sentito l'impulso di ringraziare il sindaco Valter Veltroni perché anche da sinistra aveva esortato la popolazione romana a esporre il tricolore per i martiri di Nassiriya. Mentre lo ringraziavo, il mio amico Gianni Borgna, assessore diessino alla cultura del Comune di Roma, continuava a ripetermi nelle orecchie che però Bush è un pazzo. Sul diffidar

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