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L'INTERVISTA ALL'EX SOTTOSEGRETARIO

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«Sbagliammo a sostenere il dittatore»Ranieri (Ds): «Tutti sottovalutarono la sua pericolosità. Nel governo non c'erano due linee»

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Umberto Ranieri lo ammette. Lui, responsabile del settore esteri dei Ds all'epoca dell'operazione Telekom Serbia e poi sottosegretario agli Esteri con delega ai Balcani (al posto di Fassino), lo confessa: «Ci fu una sottovalutazione della pericolosità di Milosevic. Ma tutti sottovalutarono». Onorevole, come si arrivò a quell'errore? «Bisogna contestualizzare gli eventi». Cominciamo pure. Dagli accordi di pace di Dayton del '95? «No, prima. Milosevic nel '93 aveva preso le distanze dai serbo-bosniaci e dai nazionalisti serbi. Aveva fatto arrestare il nazionalista Seselj e questo fatto, nel settembre '94, ebbe un'enorme risonanza nel mondo. E ancora: fu il promotore dei negoziati per la liberazione dei caschi blu dell'Onu, aprì a Zagabria. E infine, firmò gli accordi di Dayton, anche contro le frange estremiste. È chiaro che tutto questo, agli occhi della comunità internazionale, fu molto importante. Tutti scommisero su Milosevic e sul fatto che fosse cambiato». Tutti sino al 17 novembre '96. Si svolgono le elezioni amministrative, l'opposizione vince e il dittatore annulla le elezioni. Si rivede il vecchio volto del massacratore Slobo. Fu così? «No, perché nel dicembre del '96 l'Onu toglie anche l'embargo. Tra l'altro, qualche Paese europeo aveva cominciato ad operare in Serbia molto prima». Scatta la repressione. È un Natale di sangue, ogni giorno una protesta... «E allora?». Allora, onorevole, lei il 27 dicembre del '96 dichiarò: «Milosevic non ha più alibi, il suo governo deve rispettare la sovranità popolare, far cessare la repressione da parte della polizia e assicurare alla giustizia i responsabili».... «E allora?». Ancora: «Tocca alla Comunità internazionale agire con fermezza ed equilibrio perché il governo di Belgrado si muova senza ambiguità». Intanto Stet trattava con il regime e si preparava a finanziarlo. Le sembra normale? «Scusi, questo semmai dimostra proprio la condotta senza ambiguità in politica estera del governo. Quando esplose la violenza fummo chiari. L'Italia svolse un ruolo centrale per far rientrare in Serbia Felipe Gonzales e la delegazione Ocse per far ristabilire le regole democratiche». E nel suo rapporto, Gonzales scrisse a chiare lettere di violazioni di diritti umani. Dunque, non c'era l'appoggio della Comunità internazionale. O no? «Anche noi incontrammo l'opposizione. Ricordo che li vide Fassino a Belgrado a gennaio e poi vennero a Roma. Avevamo stretti contatti con la Pesic, Draskovic e Djindjic. Chiedemmo la costituzione di un forum, fummo al loro fianco». Questa era la posizione dei Ds. Poi c'era una parte del governo che faceva affari con Milosevic. Tomasi (ad Stet) non era un uomo della Quercia. C'erano due linee? «No, non c'erano due linee». Allora c'erano due sensibilità diverse nel governo? «C'era la consapevolezza del momento, sostenevamo una politica di stabilizzazione. Ma la verità va detta tutta». Ecco, appunto, non è ora? «Anche quella che veniva chiamata opposizione democratica in realtà non offriva piene garanzie. Parlavo spesso con i tre leader. La Pesic era occidentale, ma Draskovic e anche lo stesso Djindjic tendevano a giustificare la pulizia etnica. L'Italia cercò di stabilizzare ma, come tutti, ci facemmo prendere dall'ansia della pacificazione dell'area. Così, ci fu anche qualche errore». F. D. O.

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