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Papa Leone XIV, la rivoluzione silenziosa. Ecco tutti gli uomini dell'agostiniano che cambia la Chiesa

Luigi Bisignani
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Caro Direttore, un outsider senza lobby. Lo Spirito Santo ha scelto come Papa il cardinale Robert Francis Prevost, che era il meno sostenuto dalle correnti rumorose, dai movimenti organizzati - dall’Opus Dei a Sant’Egidio -, ma che portava con sé la grande forza silenziosa degli agostiniani, presenti soprattutto in Centro e Sud America. Non una rete di potere, bensì una trama di appartenenze spirituali, affinità teologiche e strategie condivise, maturate nella discrezione e nell’umiltà, che hanno saputo orientare scelte, decisioni e consensi in modo efficace. Attorno a lui i collaboratori del nuovo Papa Leone XIV non formano una cordata, ma una fraternità ecclesiale, più vicina alla comunità di Tagaste che ai cenacoli romani. Il cuore pulsante di questa elezione si è nutrito della spiritualità agostiniana, fatta di interiorità e discernimento, ma anche di concretezza evangelica. Eppure, accanto a questo asse spirituale, c’è stato un motore politico-istituzionale italiano non troppo visibile, ma decisivo: il cardinale Giuseppe Versaldi. Piemontese, ex prefetto della Congregazione per l’Educazione Cattolica, figura di equilibrio e di governo. Versaldi ha saputo, nel corso degli anni, costruire attorno a Prevost una rete di protezione e di credibilità, è stato lui, in silenzio, a farlo conoscere e stimare presso l’episcopato italiano, a garantirne l’autorevolezza nei Sacri Palazzi, a promuoverne la figura come alternativa seria, spirituale e affidabile rispetto al centralismo diplomatico incarnato da Pietro Parolin, che ha trovato un muro compatto da parte dei cardinali americani, africani e sudamericani confermando il vecchio adagio romano «chi entra Papa esce cardinale».

 

 

In questo senso, Versaldi non è stato solo uno sponsor, ma un vero e proprio regista ombra dell’ascesa di Prevost. E non meno sorprendente è stato il ruolo inatteso di un nome che tutti avrebbero immaginato distante anni luce da una candidatura come quella di Leone XIV: il cardinale americano Raymond Leo Burke. Sì, proprio lui, il grande oppositore di Papa Francesco, rimosso da ruoli chiave, emarginato e spesso indicato come simbolo della resistenza conservatrice. Burke, che ha apprezzato in Prevost la sensibilità liturgica e la chiarezza dottrinale, ha riconosciuto in lui un’alternativa sobria e ortodossa agli eccessi di ambiguità degli anni recenti. La sua preferenza, condivisa da altri americani come i cardinali Sean O’Malley e Joseph Tobin, ha contribuito a sbloccare una situazione paralizzata tra nostalgici del "grande ritorno" e fautori della "grande svolta". Prevost, pacifista convinto e pacificatore dialogante, con lo spirito realmente missionario, è stato la terza via. Attorno a lui si stringe ora una squadra coesa. Primo fra tutti, monsignor Luis Marín de San Martín, vescovo spagnolo, agostiniano, sottosegretario del Sinodo e prossimo, ormai certo, successore del chiacchieratissimo Edgar Peña Parra nel ruolo di sostituto per gli Affari generali. Diventerà il nuovo numero due della Segreteria di Stato, non per ambizione ma per coerenza spirituale e visione ecclesiale. Poi ci sono figure come monsignor Fabio Fabene, ex segretario del Dicastero per i Vescovi, Ilson de Jesus Montanari, brasiliano, esperto di America Latina, suor Nathalie Becquart, punto di equilibrio tra sinodalità e governo, e padre Alejandro Moral Antón, priore generale degli agostiniani, custode del carisma e voce ascoltata nei momenti di discernimento più delicati. Accanto a loro, teologi come Alberto Royo Mejía e canonisti come il gesuita padre Gianfranco Ghirlanda, hanno fornito a Prevost gli strumenti per trasformare la sua visione sinodale in linee operative. Il segnale è chiaro: non è in atto una rivoluzione di potere, ma una riconfigurazione spirituale.

 

 

Leone XIV non inizierà il suo pontificato con epurazioni, ma con gesti di continuità ponderata. Parolin resta, per ora. Ma è evidente che il baricentro si sposterà, e con l’arrivo di Luis Marín de San Martín alla guida operativa della Segreteria di Stato, si aprirà una nuova stagione. Gli agostiniani, che non formano una lobby nel senso tradizionale, stanno diventando una corrente spirituale di governo: autorevole perché radicata in una tradizione antica, forte non per la ricchezza - che in molti casi non c’è più - ma per la coerenza. È noto che l’Ordine di Sant’Agostino non naviga oggi in acque abbondanti: in mezzo mondo i monasteri sono chiusi o abbandonati, le vocazioni scarseggiano, le opere si reggono sul sacrificio di pochi. Eppure, proprio nella povertà materiale e nel decentramento, l’Ordine ha riscoperto la sua vocazione profetica. Il loro vero "capitale" oggi è il pensiero, la preghiera, la sobrietà. Cuore di questa rinascita è il Collegio Agostiniano di Roma, che non è solo una residenza, ma un crocevia formativo e teologico, un punto di raccordo tra le periferie dell’Ordine e la Curia. È lì che sono passati - studiando, vivendo, discernendo - i protagonisti di questa fase ecclesiale: da Prevost a Marín, da Moral Antón a tanti formatori delle nuove generazioni. Se Francesco ha parlato di una «Chiesa in uscita», Leone XIV sembra desiderare una «Chiesa in ascolto interiore», capace di dire parole forti senza urlare, di prendere decisioni senza violenza, di camminare senza calcolo. Una Chiesa che, come direbbe Agostino, cerca Dio non nel rumore del mondo, ma nella verità del cuore. Nessuno da solo, tutti insieme. «In necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas».

 

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