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Feltri: la giungla di Roma ostaggio di radical chic e incapaci al comando. Il voto è l'unica ricetta

Vittorio Feltri
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Di recente ho avuto il piacere di recarmi a Roma, città che amo ma dove purtroppo vado sempre meno a causa della mia sempre più scarsa propensione a spostarmi e a viaggiare. Il mio soggiorno non è durato più di quarantotto ore, eppure è stato sufficiente perché mi accorgessi che poco o nulla è mutato da quando alla guida della capitale si è insediato il sindaco democratico Roberto Gualtieri, succeduto alla grillina Virginia Raggi. Buche, immondizia, disordine, rallentamenti, inefficienze varie sono soltanto alcuni dei problemi con i quali si confrontano quotidianamente i romani, ormai assuefatti a questo status quo tanto da non avvertirne quasi più peso e fastidi, sebbene lo stress di una esistenza condotta all’interno di questa giugla urbana si faccia sentire e produca i suoi sintomi. La buona cucina, il clima piacevole, il carattere giocoso e divertente dei romani, la maestosità e la bellezza della città che regala emozioni e palpiti ad ogni passo contribuiscono senza dubbio a mitigare gli aspetti peggiori dell’urbe di cui sono colpevoli le amministrazioni che si sono avvicendate e che ogni volta promettono di cambiare tutto lasciando poi tutto com’è.

 

 

Mi sono interrogato circa i motivi che rendano l’impresa impossibile. Insomma, perché imporre ordine, rigore, disciplina, pulizia, efficienza è così arduo a Roma? Può dipendere dalla morfologia e dalla geografia della città? Può dipendere dalle sue dimensioni gigantesche? Non credo. Io penso che sia mancata la reale volontà da parte di coloro che hanno governato la capitale di efficentarla. Forse è mancato l’amore verso Roma, quella Roma caput mundi di cui ciascuno di noi è in fondo cittadino poiché ciascuno di noi ne ha tratto origine. Non ho potuto fare a meno di riflettere su un paradosso che è stato riconfermato nelle recentissime elezioni europee. Si tratta della differenziazione tra il voto nelle grandi città e il voto nel resto del Paese. Ogni volta quello che emerge sia dalle votazioni nazionali che da quelle europee sono due Italie: l’Italia che nei capoluoghi di regione predilige la sinistra e l’Italia che sceglie con sempre maggiore convincimento il centrodestra. Insomma, il vero dualismo italiano non risiede nella contrapposizione Nord-Sud ma nel divario tra la minoranza che dimora nel cuore delle città e la maggioranza che ne sta al di fuori. Stupisce che gli abitanti delle grandi città abbiano questa forma di accanimento contro loro stessi seguitando a preferire i progressisti e ad affidare la gestione dell’area ad una sinistra che non può essere considerata modello di efficienza e che viene per di più percepita lontana dai cittadini.

 

 

Tale differenziazione è stata sempre spiegata con la teoria in base alla quale chi vive nelle metropoli, in particolare nei loro centri, è di solito ricco e non si scontra con le problematiche economiche che riguardano coloro che campano fuori dalle grandi città i quali quindi tendono a votare partiti "anti-sistema" per esprimere malcontento e ribellione nei riguardi del proprio stile di vita. Non posso essere d’accordo. I partiti di destra non possono essere definiti "anti-sistema", tanto più ora che governano l’Italia intera. Riduttivo affermare: chi è benestante è di sinistra e chi è poveraccio è di destra. Pregiudizi e stereotipi che non forniscono una spiegazione sufficientemente soddisfacente dell’anomalia che ho appena illustrato e che perdura da sempre. Non ci resta che rassegnarci al malgoverno delle metropoli, in ostaggio permanente dei radical-chic, o impegnarci al prossimo giro per rivoluzionare le cose nell’unica maniera possibile, ossia mediante il voto.

 

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