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Paragone difende Salvini: “Menarlo è lo sport che va di moda”

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Gianluigi Paragone
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Nel ’92 quel genietto di Francesco Baccini uscì con un album divertentissimo: «Nomi e Cognomi». Conteneva una canzone dal titolo «Giulio Andreotti» ed era un elenco di malefatte e di colpe da attribuire a colui che oscillava tra l’epiteto di Belzebù e Divo. Questa cosa mi è tornata in mente in queste ore pensando a Matteo Salvini. Pare che dalla sconfitta in Sardegna alle manovre interne alla Lega, passando per Vannacci e Verdini, valga tutto pur di dare addosso al fu Capitano oggi Capitone come lo chiama Dagospia. Potrebbe essere l’antipasto del processo che potrebbe subire il vicepremier se il risultato delle Europee fosse una debacle. È innegabile che il Salvini di oggi non abbia più il tocco magico di cinque anni fa ed è normale che in politica quando sei incudine le prendi proporzionalmente (forse anche qualcosa in più) a quando le hai date quando eri martello. Però, secondo me, è troppo. E soprattutto trovo ingeneroso che a parlare siano coloro che hanno beneficiato del tempo in cui il Matteo portava la Lega dal 3 per cento al 34.

 

 

Perché anche da qui bisogna partire: chi oggi pensa di rifare la Lega «sindacato del territorio» o il partito federalista ma anche secessionista ma anche della devolution, si sbaglia: in politica (.. ) le operazioni nostalgiche non trovano sponda. Quanto a una operazione politica in senso stretto mi permetto di ricordare che la Lega che Salvini prese in mano era una Lega che il buon Roberto Maroni aveva già tentato di rimettere al centro della questione settentrionale dopo l’operazione della ramazza per ripulire ciò che gli scandali di via Bellerio avevano pesantemente offuscato. «Prima il Nord» era infatti ciò che adesso qualcuno vorrebbe tentare di rifare. Con Luca Zaia? Non credo; è più facile che il governatore del Veneto faccia il sindaco a Venezia (la cassaforte della regione) piuttosto che vederlo segretario di una rinnovata Liga o Lega Nord. Massimiliano Fedriga? Bravo figliolo ma essere leader è altro. Inoltre quel territorio che si dice di voler tornare a rappresentare, cioè piccole aziende e partite Iva, sta vivendo una crisi che è diversa da quella degli anni Novanta. La voglia di autonomia c’è ma qualcosa non torna se nello stesso Veneto che rivendica l’autonomia, il voto d’opinione finisce in Fratelli d’Italia. Piaccia o no, questo è il tempo dei leader. Arriviamo così al punto.

 

 

La crisi della Lega è la crisi della leadership di Matteo Salvini e non credo che da qui si scappi: la Lega è destinata a una lunga marcia nel deserto per riconnettersi a un nuovo popolo che oggi ha trovato altri lidi elettorali. Per quanti errori abbia commesso e stia commettendo il Capitano, non credo che l’umiliazione o questo dargli addosso serva: non alla Meloni, non al governo e nemmeno a un partito che - ripeto - come tutti i partiti che cresce sulla forza di un leader soffre il declino dello stesso. Salvini non ha potuto far perdere Paolo Truzzu: un partito che prende il 3 per cento non ha la forza per giocare col voto disgiunto e far perdere il candidato presidente. Quanto a Roberto Vannacci: forse se si arriva ad aggrapparsi al Generale è perché chi avrebbe potuto aiutare il segretario non lo ha fatto preferendo lavorarlo ai fianchi negli ultimi anni ed evitare lo scontro interno. Certo, in politica gli scontri comportano ferite però sono l’unico esercizio per tenersi in forma. «Salvini gliel’ha fatta pagare a Giorgetti, figurarsi a noi...», mi dice qualcuno. Premesso che Giancarlo Giorgetti non mi sembra affatto morto, credo che Salvini non avrebbe retto due scontri frontali interni al partito. Per farla breve, Salvini avrà le sue colpe però trovo ingeneroso e anche un po’ sciacallo questo tentativo di metterlo ancor più all’angolo.

 

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