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Riforme, si parte ma è un'altra partita al buio: i nodi per il governo

Riccardo Mazzoni
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Domani, attraverso le consultazioni della premier con le forze di opposizione, parte il percorso delle riforme istituzionali che il centrodestra ha posto fra gli obiettivi di legislatura. La sinistra, tanto per cambiare, si presenta divisa, con i Cinque Stelle pronti all’Aventino, il Terzo Polo in posizione dialogante e il Pd ancora incerto sul «che fare», anche se la maggioranza schleiniana sembra già orientata al pollice verso. Memore dei fallimenti del passato, Giorgia Meloni ha scelto di non presentarsi con un progetto precostituito, anche se è nota la propensione del suo partito per il semipresidenzialismo francese, con la consapevolezza che il punto di caduta per un accordo potrebbe essere il premierato nelle due varianti dell’elezione diretta del capo del governo o del cancellierato tedesco. Sul presidenzialismo la sinistra ha cambiato più volte verso, a seconda delle convenienze politiche del momento, e oggi che al governo c’è il centrodestra i pregiudizi e gli anatemi sui rischi di una svolta autoritaria sono cresciuti in modo esponenziale. C’è chi lo ha definito un sistema alieno alla storia d’Italia, oppure un esperimento da apprendisti stregoni che per copiare Parigi ci porterebbe direttamente a Mosca. Si è evocato «il fantasma del presidenzialismo» che esalterebbe l’odio sociale, con il sottinteso che «l’interesse della destra non coincide con quello del Paese». Anche se da anni i sondaggisti certificano che la grande maggioranza degli italiani sarebbe favorevole a una riforma presidenziale.

 

 

Sarà insomma una partita complicata e rischiosa, anche perché sull’unica apertura finora registrata, quella sul premierato, i distinguo si sprecano: in teoria ci sarebbe un largo fronte favorevole a rafforzare i poteri del premier, trasformandolo in un cancelliere sovraordinato rispetto ai ministri e stabilizzato dalla sfiducia costruttiva. Non più dunque un primus inter pares come adesso, che non ha neppure la facoltà di mandare a casa un ministro. Ma qui si pone il problema di salvaguardare «la preziosa funzione neutra del capo dello Stato» e di non svilirla attraverso «l’impossibile convivenza tra un premier eletto dal popolo e una controfigura di presidente di investitura parlamentare che darebbe vita a un conflitto permanente, dominato dal premier». Per cui niente sindaco d’Italia, come vorrebbe Renzi, o premierato forte (una formula che garantirebbe ai cittadini di poter scegliere non solo un partito, ma anche un programma, una coalizione, una proposta di governo e un premier), ma una sorta di cancellierato che resti però nel solco della democrazia parlamentare. Questa è, ad ora, la posizione del Pd, che ha presentato un disegno di legge costituzionale in proposito e non vuol in alcun modo toccare le prerogative del Capo dello Stato, per cui non accetterebbe neppure una riforma in tal senso che entrasse in vigore solo dopo la scadenza del mandato di Mattarella.

 

 

L’altra questione dirimente è l’impalcatura su cui impostare le riforme, con sullo sfondo l’ipotesi di una Bicamerale per metterle al riparo dallo scontro quotidiano tra maggioranza e opposizione: è la strada indicata ieri sul Sole 24 ore dal costituzionalista Francesco Clementi, sulla falsariga della commissione De Mita-Jotti del 1992, che fu istituita con due atti monocamerali di contenuto analogo. In parallelo, un disegno di legge costituzionale dovrebbe conferirle poteri referenti nei confronti delle Camere. È un suggerimento saggio, ma il problema fondamentale resta la probabile indisponibilità di Pd e Cinque Stelle ad aprire un dialogo bipartisan sulle riforme che significherebbe dare piena legittimazione «a questa destra».

 

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