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Patto di stabilità, si torna alla vecchia austerità. Paragone: la verità sull'Ue

Gianluigi Paragone
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Come volevasi dimostrare l’Europa torna a essere quella che è, quella che conosciamo: una struttura di controllo malata di contabilismo cronico, di rigorismo. E lo fa dopo tre emergenze globali che hanno lasciato segni assai evidenti, quella finanziaria prima (arginata col quantitative easing di Mario Draghi), quella sanitaria e infine quella economica che somma Covid e guerra in Ucraina. Vale la pena ricordare che durante le emergenze prima la Bce e poi la stessa Commissione avevano deciso di azionare leve espansive: la prima acquistando a piene mani titoli di Stato dei Paesi membri (quindi generando nuovo debito pubblico continentale), autorizzando una spesa ulteriore congelando il Patto di Stabilità la seconda. Cosa succede adesso che a fatica le economie e la società cercano di rimettersi in carreggiata? Succede che la Bce non rinnova i titoli in scadenza e la Commissione tornano a predicare il rientro dai debiti.

Per essere sicura del «procedimento» l’Europa ha instradato la riforma del famigerato patto di stabilità imponendo di fatto un guinzaglio ai governi e limitandone le azioni politiche. Non solo, se la proposta ispirata dalla Germania fosse accolta il governo dovrebbe preoccuparsi di trovare dai 7 ai 15 miliardi all’anno per rientrare nei paletti fissati. Quindi, prima veniva consentito di indebitarsi per pagare la ripartenza e contrastare i rincari (energia e materie prima in testa), ora nel mezzo della salita, perché la ripresa non arriva con uno schioccar di dita, ti colpiscono alle gambe.

Questa situazione non è nuova, dicevamo. È il peccato originale della Ue, la cui idea macroeconomica - essendo tarata sugli standard tedeschi - considera «male» il debito pubblico. Poiché questo è il mantra europeo, non avevamo dubbi allorquando criticavamo il Pnrr, cioè soldi prestati per realizzare riforme care al verbo europeo (ecosostenibilità e digitalizzazione spinta), in quanto ogni euro che arriva da Bruxelles genera un impegno a stare nei binari del rientro dal debito. Cosi, non mi stupiscono né la rigidità della riforma né il pressing sulla ratifica del Mes. Ognuna di codeste riforme restringe, fino a occluderli, gli spazi di manovra dei governi, i quali sono alla guida degli Stati per effetto di una vittoria elettorale sulla base di un programma e quindi una certa visione. Mandato che, al contrario, l’Europa non dispone.

A ciò vanno aggiunti i recenti segnali che arrivano dai player finanziari impegnati nella partita e ai quali non va bene un governo non perfettamente allineato: i fondi finanziari che si ribellano alle nomine e si muovono per condizionare le maggioranze nei cda; Goldman Sachs che consiglia i Btp spagnoli sui titoli italiani; le agenzie di rating che tornano a minacciare declassamenti. Va da sé che, al netto della sciatteria con cui la maggioranza ha affrontato in aula le modifiche di spesa, il dibattito sulla riforma del Patto di Stabilità diventa una questione di primaria importanza, perché in controluce quella modifica non è nient’altro che un commissariamento bello e buono: cari governi pesantemente indebitati, non potete realizzare le promesse elettorali se prima non mettete a riparo i conti; chi non lo facesse si ritroverebbe a farei conti con una procedura per disavanzo eccessivo e quindi via col solito tormento infernale: si deve rientrare dal debito, si deve tagliare. Praticamente è il meccanismo del Fiscal Compact che anche in Italia ben conosciamo: tagli alle pensioni, nessun intervento di alleggerimento fiscale e via dicendo.

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