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Tangenti dal Marocco, l'indifferenza europea per la tragedia dei Saharawi

Riccardo Mazzoni
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Il Marocco-gate, con le tangenti che sarebbero state pagate per condizionare la politica europea in favore di Rabat e contro i legittimi interessi del popolo Saharawi, non è altro che la degenerazione finale di un atteggiamento obliquo che l’Ue ha sempre tenuto nei riguardi dell’occupazione illegale del Sahara occidentale, con un silenzio prolungato e sospetto sulla sistematica violazione dei diritti umani in quell’area martoriata.

Lo scandalo emerso negli ultimi giorni dimostra quanto sia labile il confine tra realpolitik e corruzione, tra l’esigenza di non compromettere i rapporti commerciali con un partner africano ritenuto cruciale e la totale rinuncia a difendere l’autodeterminazione di un popolo oppresso. Basta un solo esempio per comprendere lo strabismo comunitario: dopo che nel 2019 l’Europarlamento approvò un accordo di pesca che includeva esplicitamente anche il Sahara occidentale, il 29 settembre 2021 la Corte di giustizia europea ne annullò la proroga riconoscendo il diritto dei Saharawi a sfruttare le risorse del proprio territorio ma la Commissione ha continuato ad appoggiare la politica annessionista e il saccheggio delle risorse naturali da parte dello Stato occupante.

Nulla di nuovo, perché negli ultimi quarant’anni ha sempre prevalso la legge del più forte e a nulla sono valse neppure le risoluzioni delle Nazioni Unite per lo svolgimento di un referendum sull’autodeterminazione del popolo Saharawi per arrivare a una soluzione politica che possa contribuire alla stabilità, allo sviluppo e all’integrazione della regione del Maghreb. Così come è risultato del tutto ininfluente il riconoscimento della Rasd (Repubblica Araba Saharawi Democratica) come Stato libero e indipendente da parte dell’Unione africana e di oltre 80 Paesi nel mondo.

Eppure è stata ampiamente documentata sia da Amnesty International che da altre organizzazioni internazionali la terribile situazione in cui sono costretti a vivere i civili saharawi, privati dei diritti più elementari a causa della durissima repressione operata nei territori occupati, come denunciato lo scorso aprile dal Comitato contro la tortura dell’Onu a Ginevra in difesa anche dei giornalisti non allineati alle direttive del governo e dei leader del Fronte Polisario, legittimo rappresentante politico del movimento di liberazione. Il 5 ottobre 2017, come vicepresidente della Commissione diritti umani del Senato, incontrando Abba El Hassan Salek, allora presidente della omologa Commissione del Sahara Occidentale, ebbi in prima persona un quadro terrificante delle condizioni disumane imposte dagli occupanti: «Senza un referendum di autodeterminazione – mi disse - nel Sahara occidentale non vi saranno né pace né stabilità. Il Marocco sa perfettamente che in caso di referendum il popolo saharawi sceglierà l’indipendenza: non siamo marocchini e ci rifiutiamo di diventare marocchini».

A fronte della fierezza con cui un intero popolo sta lottando per la libertà, dunque, anche solo il sospetto che qualche europarlamentare abbia svenduto quei valori inviolabili in cambio di regali e mazzette fa letteralmente rabbrividire. E in quanto a sospetti, la bocciatura come candidata al premio Sakharov di un’attivista saharawi, Sultana Khaya – rinchiusa per mesi nella sua abitazione e stuprata insieme a madre e sorella da paramilitari marocchini – con il voto determinante del gruppo socialista, alla luce dell’inchiesta giudiziaria in corso, getta una lunga ombra sull’anomalia di quella decisione e sulle pressioni altrettanto anomale della diplomazia di Rabat sulla democrazia europea.
 

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