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Il silenzio colpevole dell'Occidente davanti alla rivolta in Iran

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Riccardo Mazzoni
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Il 16 gennaio del ’79 lo Scià Reza Pahlavi lasciò l’Iran per rifugiarsi in Egitto ed evitare un bagno di sangue tra i suoi sostenitori e i khomeinisti che a furor di popolo stavano prendendo il potere in attesa del ritorno dell’ayatollah supremo dall’esilio di Parigi. Trionfava così una rivoluzione che avrebbe instaurato un ordine sociale e politico fondato sulla Sharia. Sulla confusione di quei giorni di pericolosa anarchia si ebbe un’unica certezza: il club dei Grandi aveva abbandonato al proprio destino lo Scià che aveva modernizzato l’Iran a un ritmo incompatibile con l’arretratezza di un Paese sottosviluppato, creando diffuso malcontento popolare represso con i metodi brutali della Suvak. Nessuno in Occidente comprese che quella rivoluzione era il primo, drammatico atto del Risveglio islamico. Anzi: l’élite intellettuale, da Sartre a Foucault, da Garcia Marquez a Gunther Grass, si inchinò davanti al governo degli ayatollah salutandolo come l'avvento di un’era salvifica di libertà e di giustizia, in alternativa all'ordine geopolitico della Guerra Fredda dominato dal Satana americano. Eppure i fatti sconvolgenti delle prime giornate avevano rivelato subito la natura dispotica del khomeinismo e del suo potere teocratico.

Ecco: la complice ignavia di allora fu l’anticipazione del silenzio con cui l’Occidente sta assistendo oggi alla rivolta contro il velo delle donne in Iran. Non è la prima ribellione, perché tra il 2018 e il 2019 c’erano già state grandi manifestazioni in molte città in cui furono scanditi anche slogan che chiedevano – cosa senza precedenti - perdono allo Scià, ma ora per la prima volta la protesta prosegue incessante da intere settimane e si sta allargando nonostante la feroce repressione in atto, e la casa natale di Khomeini data alle fiamme rappresenta il superamento di una linea rossa che non era mai stata valicata, una sfida molto più che simbolica al cuore del regime. Negli ultimi giorni le manifestazioni sono state anche l'occasione per commemorare le oltre 1.500 persone uccise nelle rivolte anti governative del novembre 2019, e molti mercati hanno tenuto le serrande chiuse in segno di lutto. È una protesta non violenta, ma nonostante questo da quando le dimostrazioni sono iniziate hanno perso la vita almeno 381 persone, tra cui 50 minorenni, mentre sono scattate le prime condanne a morte. Ma le immagini della pacifica rivoluzione iraniana, con le donne che si svelano e si tagliano i capelli e gli uomini che protestano al loro fianco, oltre che una denuncia senza precedenti del potere degli ayatollah, stanno diventando anche un atto di accusa contro l’Occidente avvolto nella realpolitik dell’indifferenza. Sono molteplici i motivi della rivolta esplosa il 16 settembre dopo la morte di Masha Amini, arrestata a Teheran dalla famigerata polizia morale: l’emancipazione femminile e la rivendicazione dei diritti civili, certo, ma anche la perdurante crisi economica, l’inflazione fuori controllo e la corruzione dilagante che hanno indotto anche la classe media a sostenere una protesta ormai trasversale e intergenerazionale, a dimostrazione dell’esistenza di diverse sacche di malcontento nella società iraniana. Il regime sta reagendo come ha sempre fatto: applicando la legge del terrore e l’inquisizione selvaggia. Un regime che ha mistificato la storia del Paese, riducendo la sua complessa identità alla sola componente religiosa, declinandola poi con una lettura anacronistica di regole e precetti, nonostante che – a differenza dell’ortodossia sunnita - la tradizione sciita permetta di interpretare in maniera più aperta i precetti della dottrina religiosa. Ma questa è storia nota: l’aspetto più preoccupante è il silenzio dell’Occidente, che proprio come 43 anni fa sembra ignorare l’impronta del regime teocratico di Teheran su tutto il panorama globale del fondamentalismo islamico e la sua portata destabilizzante.
 

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