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Giorgia Meloni e il rifiuto ancestrale di Silvio Berlusconi di darsi un limite

Domenico Giordano
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Nella politica italiana ci sono missioni che risultano impossibili. Autentiche fatiche di Sisifo. Per tutti, nessuno escluso. Molto probabilmente, anche per Giorgia Meloni che da poco ne ha vinta una, alquanto difficile, come riportare la destra al governo del Paese. Tra queste, la prima, dal 1994 a oggi, è quella di pensare di poter confinare lo strabordante Silvio Berlusconi in un ruolo ancillare, di gregario di lusso, di padre nobile del centro-destra, piuttosto della Repubblica. Il Cavaliere è e si è sempre pensato come il dominus della scena politica, il solo capace di risolvere e risollevare le sorti dell'Italia e degli italiani, una certezza che già nel 2009 gli faceva dire senza dubbio alcuno di: «Essere stato e di essere di gran lunga il migliore presidente del Consiglio che l'Italia abbia potuto avere nei 150 anni della sua storia». Un'auto-rappresentazione di sé stesso che non contempla alcun limite, anzi, come dichiarava qualche anno fa Massimo Recalcati in «lui c'è un rifiuto radicale dell'esperienza del limite». Il riconoscimento del limite, qualsiasi esso sia, si trasformerebbe in Berlusconi «nell'ammissione di una fragilità, di una vulnerabilità e di un fallimento», dimensioni del vissuto tanto umane quante lontanissime dalla narrazione berlusconiana.

 

 

Il rifiuto ancestrale di ogni limite, fisico e di potenza, si è alimentato e, contemporaneamente, si è manifestato nel suo immenso e «intenso desiderio di piacere» (Giovanni Maria Ruggiero, 2008) allo stesso modo sia alla casalinga di Voghera che ai leader del mondo, perché «Silvio Berlusconi è un uomo dall'egocentrismo smisurato (Luigi Cancrini, 2012) nel quale si sono perfettamente saldati per almeno tre decenni due condizioni incendiarie, da un lato un «narcisismo normale, alimentato dall'altro da troppo potere». Una mistura che rischia di sfociare in un «vero e proprio disturbo narcisistico della personalità». Ma questo è il Berlusconi che abbiamo imparato a conoscere e a tollerare, che abbiamo ammirato e portato in processione, uomo e leader campione di difetti e di virtù, che oggi sta combattendo, perdendola inevitabilmente, la sfida con la clessidra del tempo. Un conflitto silenzioso che nessun matrimonio, quale simbolo di viralità e vitalità, per quanto posticcio potrà fargli vincere. Lo scorrere del tempo, con il suo carico di odiosi fardelli, non fa sconti a nessuno. È questo braccio di ferro tra il «falso sé», ovvero da ciò che un soggetto crede di essere in coerenza con l'immagine interna cosciente, e il «sé vero», che si avvera nella crudeltà delle relazioni e delle condizioni oggettive, che fa scrivere ad Alessandro Sallusti una lettera dolcissima per dirgli con grande amore filiale «non la capisco più e non essendo l'unico, penso che il problema non sia mio».

 

 

Infatti, il problema è solo suo, generato dall'intolleranza a quel limite indicato da Recalcati: per la prima volta in vita sua Berlusconi non sta duellando con un avversario politico, con le toghe rosse, con i comunisti o con Travaglio, con un De Benedetti di turno, e in ultima istanza con la Meloni per un ministero in più, ma con l'impossibilità del suo corpo, quale totem del desiderio di potere e di piacere, di fermare il tempo. È nel vano tentativo di ribellarsi inconsciamente alla caducità del proprio corpo il punto di rottura che spinge Berlusconi a volersi riprendere una centralità che invece diventa sempre più marginale e che lo porta a dire e fare cose che ce lo fanno vedere, con buona pace di Sallusti e dei tanti che sinceramente provano e hanno provato dell'affetto disinteressato, diverso da quello che ha scaldato i cuori e gli entusiasmi di metà degli italiani.

 

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