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Le follie del Pd: Giuseppe Conte trasformato nel Melenchon italiano

Riccardo Mazzoni
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Il MoVimento Cinque Stelle è sempre stato un magma politico indistinto post-ideologico in cui convivevano simbologie visionarie, utopie post-industriali e semplificazioni difficili da irregimentare nella tradizionale dicotomia destra-sinistra. Per questo il grillismo, quando si è misurato con la prova del governo, ha subito fatto rima con trasformismo, dando vita a due esecutivi di opposto colore e Conte, che li ha guidati entrambi, ha potuto prima affermare che non rinnegava nulla di quanto fatto a Palazzo Chigi con la Lega e poi, uscendo dal Quirinale con in mano il secondo incarico, affermare senza alcun imbarazzo che quello che stava per nascere col Pd sarebbe stato «un governo nel segno della novità». Una contraddizione palese, compatibile però con la natura stessa del MoVimento, ossia quella di una forza anti-sistema che si autocelebra come portatrice della verità assoluta e unica autentica espressione della volontà popolare, per cui ogni legame con la partitocrazia è solo una contaminazione temporanea e tattica. Non a caso, i consensi sono andati a precipizio nei quattro anni e mezzo dei governi di coalizione e stanno invece ricrescendo col ritorno alla narrazione originaria del «soli contro tutti».

 

 

Il trust Grillo-Casaleggio era riuscito a creare un ossimoro politico che incarnava tratti sia del populismo di destra, cavalcando l'antipolitica e la lotta all'immigrazione, sia di quello di sinistra, mescolando anti-elitismo, opposizione al sistema, giustizia sociale e pacifismo. Erano entrambi strumenti utili a intercettare la frammentazione sociale che si traduce in domande politiche nuove e semplificate. È stato il Pd a legittimare il MoVimento come forza di sinistra, tentando di compiere, attraverso il governo rossogiallo, un'operazione speculare a quella riuscita a Salvini all'inizio della legislatura, con il travaso di consensi che aveva portato la Lega oltre il 30 per cento a discapito principalmente dell'alleato grillino. A questo scopo l'allora capo politico Di Maio era stato invitato al convegno «La nostra Europa, il nostro futuro» organizzato a Roma dai dem e dal Pse, per aprire la strada all'ingresso del MoVimento nella famiglia del socialismo europeo e rafforzare l'obiettivo dell'alleanza strategica in costruzione in Italia sulla scorta della dottrina Bettini. In realtà, i grillini un'identità precisa non l'avevano nemmeno in Europa, tanto che avevano vagato inutilmente alla ricerca di un improbabile approdo cercando rifugio prima nel gruppo antieuropeista di Nigel Farage e poi nei Verdi e nei Liberali. La svolta decisiva avvenne quando Zingaretti definì Conte come il punto di riferimento insostituibile dei progressisti italiani, e di conseguenza l'avvocato del popolo, per assumere la guida del MoVimento, pose a Grillo la condizione di un saldo e irreversibile ancoraggio alla sinistra. Una linea che Letta ha mantenuto pervicacemente fino alla caduta del governo Draghi ad opera dello stesso Conte, nonostante i campanelli d'allarme dei ripetuti fallimenti delle alleanze locali nelle tornate amministrative.

 

 

Nel frattempo, l'auspicato travaso di voti non c'è stato, perché il Pd non si è mai smosso dal tradizionale zoccolo duro del 20 per cento, mentre i voti grillini si disperdevano tra la destra e l'astensionismo. Ora, col voto del 25 settembre, sta maturando una nemesi beffarda: il Pd si sta infatti accorgendo di aver maldestramente costruito, a forza di corteggiare il grillismo, un insidioso nemico nel suo stesso campo, e di aver trasformato Conte nel Melenchon italiano, un populista rosso ormai senza pochette che, vendendo il clientelismo del reddito di cittadinanza come agenda sociale, parla come il leader della «vera sinistra». Tanto che nelle stanze del Nazareno comincia a serpeggiare la paura di ritrovarsi per la prima volta un concorrente a sinistra di pari peso, col quale sarà difficile dialogare anche dall'opposizione. Sarebbe l'ultimo capolavoro di una classe dirigente allo sbando.

 

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