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Il campo largo di Enrico Letta è meno credibile dell'Unione di Prodi

Riccardo Mazzoni
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Sembra passato un secolo da quando, naufragata la maggioranza rossogialla sotto i colpi di Renzi e del conclamato fallimento politico, il Pd per restare aggrappato al potere giurò che l’unico nome per la guida di un nuovo governo era quello di Giuseppe Conte, ma ora l’ex fortissimo punto di riferimento dei progressisti italiani è diventato un problema per Letta, e l’alleanza strutturale con i 5 stelle una sorta di palla al piede forse necessaria ma del tutto insufficiente per sperare di vincere la sfida cruciale del 2023. Insistere nell’abbraccio politico con un Movimento ormai in via di liquefazione appare insomma più una scelta dettata dallo stato di necessità che da un’accorta strategia politica, tanto che ai piani alti del Nazareno non si esclude più una virata in extremis verso il modello proporzionale per tenersi le mani libere ed evitare di donare il sangue nei collegi a un compagno di viaggio che da partner paritario si è trasformato in un’appendice pressoché inutile. Il segretario ha rimandato ogni valutazione sulle future alleanze a dopo i ballottaggi, ma che una riflessione sia in atto - spinta dall’ala riformista - lo dimostrano i piccati avvertimenti del duo Boccia-Provenzano, gli ultimi giapponesi filo-grillini del partito, che procedono al grido di «o Conte o morte».

Ma il teorema secondo cui l’alleanza col Movimento è una strada obbligata per non consegnare il Paese in mano ai sovranisti, oltre che ad avere sempre meno appeal anche nell’elettorato di riferimento, è stato platealmente smentito dalle ultime amministrative, dove il campo largo si è ridotto ai minimi termini, col M5S sceso in molti comuni a livelli poco superiori ai prefissi telefonici (a Padova 1,4%, a Genova - città di Grillo - 5%, media nazionale 2.1%). È vero che le amministrative non sono mai state il terreno ideale per misurare la forza di un Movimento di opinione che ha scalato i consensi con le battaglie anti-sistema e non con il radicamento sui territori, ma anche a voler prendere per buoni i sondaggi più benevoli raggiunge un 15% che col 20% del Pd farebbe a malapena il 35%. Ma siccome il trend in discesa sta assumendo le dimensioni di una picchiata, non è affatto escluso che nel 2023 il contributo alla causa portato da Conte - ammesso che resti leader - sia di poco superiore a quello dei cespugli di sinistra ai tempi della Quercia di Occhetto. Per cui, anche sommando quel che resta della sinistra radicale, il campo largo di Letta otterrebbe alle prossime Politiche un risultato inferiore a quello del Pd di Renzi alle Europee del 2014, restando sotto la soglia psicologica del 40% e con un distacco dal centrodestra di oltre dieci punti, il che equivarrebbe a un’autentica disfatta politica.

Il tentativo di tenere tutti insieme, da Conte a Calenda, in un confuso campo valoriale alternativo alla destra, appare però come un’equazione impossibile, perché di affinità valoriali - dalla giustizia al fisco, dalle infrastrutture al reddito di cittadinanza fino alla politica estera - non ce ne sono proprio, neanche a cercarle col lanternino: Letta vuole un campo largo contro le destre, Calenda e Renzi, invece, un’alleanza riformista alternativa alle destre ma anche a una sinistra contaminata dal populismo grillino. Si tratta dunque di due visioni prospettiche opposte, che segnano una totale incompatibilità politica e che, se un giorno fossero riunite in nome del potere, replicherebbero l’esperienza dell’Unione di Prodi, un ircocervo che seppellirebbe definitivamente la credibilità politica dei contraenti di un patto irresponsabile.

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