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di MARIO BERNARDI GUARDI Nell'Italia della guerra civile i partigiani "rossi" rispolverarono il patriottismo risorgimentale grazie all'immagine di Garibaldi, che nel 1948 sarebbe stata l'insegna del fronte popolare socialcomunista.

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Masiccome storia è strana e stravagante, ecco che i "repubblichini" più intellettualmente sensibili- lo testimoniano Carlo Mazzantini, Enrico de Boccard, Roberto Vivarelli, tutti "ragazzi di Salò" prima attivamente partecipi e poi accoratamente testimoni- tra i miti letterari avevano, insieme ai "Proscritti" del nichilista rivoluzionario Ernst von Salomon, un libro di tutt'altra ispirazione come "L'Alfiere" di Carlo Alianello. Ovvero il romanzo che racconta la storia di un valoroso combattente "pro aris et focis", sotto le insegne di Franceschiello. Come dire, reazionari di ieri e rivoluzionari di oggi uniti nella lotta contro i liberatori/conquistatori. O se preferite i Borboni arruolati nella cultura della RSI contro quei prepotenti dei Savoia. In ogni caso di storia patria come storia di tutti e di memorie accettate, pacificate, condivise, nel nostro Paese non riusciamo ancora a parlarne. I vinti restano vinti, i vincitori, vincitori. E non solo per quanto riguarda i furori del '43-45, ma anche per eventi e personaggi di 150 anni fa. L'Italia ufficiale, che in questi mesi è stata tutta un fremito tricolore, non è in grado di fare i conti col proprio passato, non sa, non vuole raccontare le "ragioni" di chi "parlava male" di Garibaldi e detestava i piemontesi. E invece non si può buttare tutto in retorica e quelle "Italie" che avversarono ferocemente l'Unità vanno "ritrovate" e spiegate. Meno male che cresce il numero degli storici immuni da pregiudizi e vogliosi di verità. Stiano da una parte o dall'altra è secondario, purché in loro ci sia un preciso impegno di revisione. Guardate, non si tratta di una parolaccia, insegnava Renzo De Felice: lo storico è sempre revisionista, alla luce di quel che vien fuori dagli archivi, dai documenti, e in particolar modo da quell'"etica" che ti impegna a ricostruire "sine ira et studio". Tanto di cappello, dunque, a Gerardo Picardo che ne «Il canto delle pietre. Brigantesse e briganti nella letteratura dei vinti, e il destino di Maria Sofia» (introduzione di Isabella Rauti, Luigi Pellegrini Editore), ha raccolto una serie di saggi - di Neria De Giovanni, Marilena Cavallo, Micol Bruni - per rievocare un pezzo di Sud, vinto ma non convinto, come vien fuori dai "Cantos" post-poundiani di Pierfranco Bruni. Un Sud così tenacemente ancorato ai propri valori, alle proprie tradizioni, al proprio Re e alla propria religione, da scatenare contro gli "occupanti" una guerriglia durata anni. Perché per anni nel Meridione il sangue chiamò il sangue e la normalizzazione poté avvenire solo grazie a una repressione forse più dura e spietata della violenza "brigantesca". Era nella logica dei fatti? la Storia, con la sua implacabile maiuscola lo esigeva? non si poteva agire se non con il pugno di ferro a maggior gloria di un Paese che "doveva" essere unito? Forse, e non è il caso di entrare adesso nel dibattito sui "come" e i "perché" di un'Unità ancor oggi "introvabile", sugli squilibri endemici tra Nord e Sud, sugli errori e gli orrori delle varie "classi dirigenti" ecc. Ma chiarezza possiamo farla e il libro la fa a partire da affermazioni dure, scomode, ma tutt'altro che gratuite, e che possiamo riassumere in questi termini: il Sud subì l'Unità; la ribellione armata fu generata da cause sociali, politiche, culturali; la reazione popolare e contadina fu ampia e appassionata; ci fu- non è possibile chiamarla altrimenti- una guerra civile con un altissimo costo di vite umane; il brigantaggio non può essere liquidato come un fenomeno criminale; le ferite che allora furono aperte oggi sono tutt'altro che rimarginate. Ancora: c'è nel brigantaggio tutto un universo femminile e, potremmo dire, protofemminista che deve essere ancora scoperto. Perché Michelina De Cesare, Filomena Pennacchio, Maria Lucia Di Nella, Maria Tulino, Mariannina Della Bella, non solo soltanto delle donne coraggiose che seguono i loro amanti, vestendosi da uomini, andando a cavallo nei boschi e sui monti, dormendo all'addiaccio, partecipando ai combattimenti, accanto a capi come Domenico Crocco e Ninco Nanco, ma sono in qualche modo le portavoci di un moto di autonomia e di riscatto contro un ancestrale subordinazione al maschio. Rivendicano, dunque, un ruolo di "protagoniste" e ne pagano le conseguenze. Come, in un ben diverso scenario, ma in nome della stessa determinazione nella lotta e nel sacrificio, avviene per Maria Sofia, moglie di Francesco II, signora, anzi regina, impeccabile per eleganza e stile ed eroica animatrice della resistenza di Gaeta. Un cuore guerriero e un'inalterabile grazia, a futura memoria di chi la memoria non vuol perdere.

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