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Joe Biden contro la Cina. Ma apre ai dittatori di Venezuela e Cuba: "Vuole il petrolio"

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Paola Tommasi
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Joe Biden proprio non si dà pace: dopo la Russia apre il capitolo Cina. Nel frattempo tratta con Venezuela e Cuba. Se a Est vuole combattere due dittatori, Vladimir Putin e Xi Jinping, in America Latina ne legittima altri due, Nicolás Maduro e Miguel Díaz-Canel.

Da un lato gli Stati Uniti tornano al centro dello scacchiere internazionale nel ruolo di «soldato del mondo», un mondo democratico, libero, prospero e connesso, contro ogni autocrazia e ogni tipo di mire espansionistico-imperialistiche. Dall'altro Biden riabilitala dottrina marxista-comunista togliendo l'embargo a due Paesi che in tema di rispetto dei diritti umani sono ancora molto indietro. Anche questa volta è una gaffe a rivelare la strategia del Presidente americano nel corso della sua prima visita ufficiale in Asia, a Tokyo, dove per quattro giorni sono riuniti i capi di governo di Giappone, India, Usa e Australia, i cosiddetti Paesi del «QUAD».

«Se la Cina attacca Taiwan, gli Stati Uniti sono pronti ad intervenire», ha detto mandando in fumo cinquant' anni di politica estera americana che nei rapporti Usa-Cina segue dal 1979 la linea della «ambiguità strategica», vale a dire supporto in tutti i campi, da quello economico fino alla fornitura di armi se dovessero essere necessarie, a Taiwan in caso di aggressione cinese, ma mai intervento diretto.

Le parole di Biden, invece, hanno fatto subito pensare alla volontà di creare anche in Oriente una sorta di «Nato asiatica», cioè un'alleanza militare di difesa da parte dei Paesi limitrofi di Taiwan con intervento militare diretto in caso di attacco della Cina. Con relative conseguenze su scala globale. Un'analogia con l'invasione russa dell'Ucraina che ha tenuto per diverse ore il mondo col fiato sospeso e che ha gettato nel panico non solo lo staff del Presidente Usa, chiamato subito a rettificare, ma anche le stesse autorità dell'isola del Pacifico che da un giorno all'altro si son trovate davanti al rischio concreto di una sconsiderata reazione cinese e che hanno tenuto in ogni modo a specificare che possono farcela con le proprie forze. Al momento l'allarme sembra rientrato, con la Casa Bianca tornata a ribadire che quello del Presidente Usa in Asia è un viaggio d'affari, finalizzato alla stipula di accordi commerciali tra i quattro Paesi riuniti. Taiwan non c'entra nulla.

Ed infatti Giappone, India, Usa e Australia si sono impegnati per investimenti comuni in infrastrutture nella regione dell'indo-pacifico per 50 miliardi di dollari. Un segnale alla Cina dal significato anche più forte dello scivolone sull'attacco militare: la sua influenza economica nell'area deve fare i conti con un blocco di Paesi democratici che non cederà alle mire espansionistiche di Xi Jinping, tanto più se quest' ultimo decidesse di fare sponda con la Russia di Putin. Resta l'evidente inadeguatezza di Joe Biden a guidare gli Stati Uniti d'America, visto che non è la prima volta che le sue dichiarazioni pubbliche estemporanee rischiano di far saltare l'ordine mondiale che vorrebbe, e dovrebbe, invece difendere. È degli ultimi giorni anche la decisione di togliere lo storico embargo a Venezuela e Cuba: ufficialmente per favorire il processo di democratizzazione dei due Paesi, in realtà per la necessità di nuove fonti di approvvigionamento di idrocarburi a seguito della guerra in Ucraina. Opportunismo o ipocrisia?

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