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Putin, la minaccia su grano e blocco dell'export. E lo Zar rischia grosso con gli alleati

Pietro De Leo
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C’è un nuovo rischio boomerang per Vladimir Putin, l’ennesimo, ma forse più decisivo degli altri perché potrebbe decretarne il definitivo isolamento internazionale. Ed è tutto incentrato sul blocco, di fatto, delle esportazioni di cereali dovuto allo sbarramento dei porti sul Mar Nero e Mar D’Azov. Uno stato di cose che sta generando gli allarmi dell’Onu, paventando rischi di carestia, anche considerando che circa la metà del grano utilizzato dalla FAO nel suo programma di lotta alla fame viene dall’Ucraina.

Ebbene, se noi prendiamo come criterio la risoluzione Onu dello scorso marzo in cui si stigmatizzava l’attacco russo in Ucraina possiamo capirci qualcosa in più. Si sono astenuti Paesi come l’Iran e il Sudan. Territori che stanno già soffrendo per i contraccolpi del blocco del grano. In Iran sono in corso dei disordini dovuti al rincaro del prezzo del grano, già saliti agli onori delle cronache come “rivolte del pane”. Il Sudan, peraltro, nel computo dei cereali importati, circa il 90% lo fa arrivare dall’Ucraina e dalla Russia.

Altri Paesi che stanno avendo le prime, gravi difficoltà per la crisi del grano sono il Mali (dove la società di contractors russi Wagner, accreditata come emanazione indiretta del Cremlino, ha avuto un ruolo centrale nel rovesciamento del governo locale), anche questo un Paese astenuto all’Assemblea Generale dell’Onu.

E difficoltà, poi, si stanno verificando anche in Libia, dove la Russia esercita un’influenza nella regione della Cirenaica. Insomma, prima della guerra, la Russia era impegnata nella costruzione di una posizione egemone in Africa, assieme ad altri “nuovi attori” non europei, tra cui il principale è la Russia. Ma proprio lì, ora, si concentrano gli effetti peggiori della crisi alimentare.

Difficile, in una condizione del genere, che quei Paesi continuino ad affiancare Mosca. Come, a quanto pare, si è anche raffreddata la posizione della Cina. Sembra passato un secolo da quando, lo scorso 4 febbraio, venne firmato il documento congiunto che gettava le basi per una collaborazione tra i due Paesi che pareva destinata ad essere epocale.

Ora, il raffreddamento del regime di Pechino, stante una nuova, pesantissima ondata di Covid che sta mettendo a repentaglio la cavalcata di XI Jinping verso il congresso d’autunno, è nei fatti. E potrebbe esserne un segnale il colloquio, di qualche giorno fa, tra il consigliere della sicurezza nazionale degli Stati Uniti Jake Sullivan, con l’esponente del Politburo cinese Yang Jiechi. Tornando al grano, la Russia ha posto sul tavolo, come contropartita sulla riapertura dei porti, la rimozione delle sanzioni. Ma potrebbe non avere le carte in regola per alzare più di tanto la posta. A meno di non voler correre il rischio di un ennesimo harakiri. 

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