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Dall'addio a Darwin al sogno di un nuovo impero: la Turchia ad un anno dal golpe di mezzanotte

Dai programmi scolastici scompare la teoria evoluzionistica. Una scelta che allontana ancora di più il Paese dall'occidente

Simone Santucci
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A distanza di un anno da quel fatidico 15 luglio 2016 la Turchia pare aver virato, ancora di più, verso oriente, abbandonando forse per sempre le ambizioni, tanto coltivate negli ultimi trenta anni, di assurgere ad unico paese islamico totalmente occidentalizzato. Il naturale irrigidimento delle istituzioni turche dopo il fallito golpe ha infatti consegnato allo scacchiere geopolitico una Turchia tutta nuova che mira a riconquistare con determinazione il ruolo di superpotenza eurasiatica, ripristinando, così, i fasti dell'antico impero ottomano fatto a pezzi da anni di revisionismo kemalista. Il recupero massiccio dell'antica tradizione confessionale dello Stato che faceva del califfato turco il più grande pilastro politico e confessionale del mondo sunnita è ormai un dato di fatto in inesorabile espansione. E il segno di questa controrivoluzione partirà, come all'epoca di Mustafa Kemal, proprio dalle scuole. Dal prossimo anno, infatti, verranno apportate sostanziose modifiche ai programmi didattici, a partire da una drastica riduzione delle ore dedicate allo studio della storia di Ataturk, quel fondatore della Turchia moderna oramai progressivamente relegato a comprimario della gloriosa storia ottomana. Non solo. Questo mutamento d'indirizzo, tutto politico, sarà accompagnato dalla totale eliminazione della teoria evoluzionistica di Charles Darwin, una decisione storica che farà figurare la Turchia accanto alla sola Arabia Saudita, l'unica nazione, fino ad oggi, a non aver mai considerato nelle scuole secondarie di primo e secondo grado gli studi di Darwin. Questo precipitoso ritorno, tutto in divenire, all'Ancien Régime turco troverà il proprio fulcro sull'aumento delle ore dedicate allo studio della religione compiendo così, dopo decenni di tentativi, una sostanziosa revisione dei programmi che sarà seguita da numerosi enti culturali islamici del Paese. Ma la normalizzazione di Erdogan, oltre che sul fronte interno, passerà soprattutto dai rapporti di forza con i vicini paesi dell'area mediorientale. Con la riconquista di Mosul a scapito delle milizie del Daesh, l'Iraq si appresta, di nuovo, a ridiscutere il proprio fragile equilibrio istituzionale che lo vede, dall'accordo Sykes-Picot del 1916, diviso arbitrariamente e senza alcun criterio logico in tre macro-aree del tutto differenti per etnia e tradizioni religiose. Una approssimazione che, pure in tempi recenti, ha provocato, in un paese a maggioranza sciita, dapprima l'ascesa del sunnita Saddam e poi l'affermazione del califfato. Il tutto senza considerare la vasta area curda che a cavallo tra la Turchia e l'Iraq del nord coltiva, da secoli, il sogno dell'indipendenza. Ed è proprio questo chiaro obiettivo dei curdi a rappresentare per Erdogan uno dei più grossi ostacoli alla costituenda grandeur che, con la recente riforma costituzionale, permetterà all'ex sindaco di Istanbul di mantenere la presidenza fino al 2029. Proprio la sicurezza di tale permanenza, ad oggi data per assodata a causa dell'estrema debolezza delle opposizioni, rappresenterà la condizione imprescindibile per combattere le velleità dei curdi iracheni nel raggiungere la costituzione di un Kurdistan iracheno, una autentica sciagura per il disegno imperiale di Erdogan che, proprio come l'Impero Romano di un tempo, tenterà con la tattica del divide et impera di rafforzare la propria egemonia all'interno di un panorama, quello mediorientale, in totale decadenza senza alcun punto di riferimento politico e militare in grado di contrastare l'irrefrenabile voglia di espansione di Ankara verso un sultanato il sultanato del terzo millennio.

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