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Quali pensioni aumenteranno nel 2023: premiati gli importi più bassi

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Gianluca Zapponini
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Babbo Natale quest'anno sarà molto generoso con i pensionati italiani. Chi ha lasciato il mondo del lavoro o sta per farlo, avrà di che gioire, stappando uno spumante in più. Il motivo, anzi i motivi, sono presto spiegati. Tanto per cominciare, l'inflazione alle stelle (11,8%, dato di novembre) vuol dire anche assegni pensionistici agganciati al costo della vita. Nei prossimi tre anni, l'Italia spenderà su per giù 50 miliardi di euro per riparametrare le pensioni con l'andamento dell'inflazione. E il primo assaggio è già in arrivo. Come chiarito ieri dall'Inps, dal primo gennaio 2023 gli assegni saranno rivalutati del 7,3%, proprio in virtù dell'impennata dei prezzi che sta mettendo a dura prova non solo le pensioni, ma anche i redditi fissi. Attenzione, non tutti gli assegni aumenteranno del 7,3%.

Nella legge di Bilancio, infatti, sono stati stabiliti i nuovi scaglioni di rivalutazione delle pensioni che passano da 3 a 6. Cosa significa? Che l'adeguamento massimo delle prestazioni, come hanno espressamente spiegato da Via Ciro il Grande, sarà applicato per trattamenti fino a quattro volte superiori alla pensione minima lorda e scenderà via via a percentuali minori di rivalutazione per gli scaglioni successivi.

Tutto questo mentre l'esecutivo di Giorgia Meloni ha deciso l'aumento della pensione minima che sale da 525,38 a 600 euro nel 2023 ma solo per gli over 75. Questo aumento, è bene ricordarlo, va sommato al sopracitato adeguamento all'inflazione. I regali non sono finti, c'è un secondo pacco pronto a finire sotto l'albero. E stavolta bisogna chiamare direttamente in causa il Covid. Il regalo di Natale si può spiegare in questi termini: chi andrà in pensione con il metodo contributivo a partire dal prossimo anno avrà un assegno più alto grazie alla revisione dei coefficienti di trasformazione del montante contributivo per il 2023-2024. Al di là dei tecnicismi, cosa vuol dire? Che a partire dal prossimo anno chi si ritirerà dal lavoro percepirà una pensione annua superiore rispetto a chi ci è già andato o ci andrà quest'anno. E questo perché il ministero del Lavoro, di concerto con l'Economia, ha da poco emanato il decreto perla revisione biennale dei coefficienti di trasformazione del montante contributivo validi per il prossimo biennio: si tratta di quei parametri che, applicati al totale dei contributi versati durante la vita lavorativa, determinano l'importo annuo di pensione cui ha diritto il lavoratore. La buona notizia è che i suddetti coefficienti sono migliorativi rispetto al periodo precedente, perché con l'aumento della mortalità causa Covid diminuisce la speranza di vita e così la rendita per chi esce dal lavoro il prossimo anno risulta più alta. Finito? Assolutamente no.

Sulla slitta ci sarà un presente anche per chi in pensione ci deve ancora andare. Stavolta la parolina magica è Tfr, il Trattamento di fine rapporto, anche se lo zampino è quello dell'inflazione e non del Covid come nel caso precedente. Ora, il coefficiente di rivalutazione del Tfr, in base all'aggiornamento relativo allo scorso novembre, è cresciuto al 9,64%, ormai a un soffio dal 10%. Ogni anno, giova rammentarlo, il Tfr accantonato si somma a quello precedentemente accumulato. Quest'ultimo va rivalutato, com'è ovvio che sia, alla luce dell'andamento dei prezzi: se il tasso dell'inflazione rimanesse invariato rispetto al mese di novembre, si andrebbe per l'appunto incontro a una rivalutazione di circa il 9,7%. Sarebbe la più alta da diversi decenni a questa parte.

Battendo anche il rendimento offerto quest'anno dai fondi pensione, che scontano l'andamento dei mercati azionari e obbligazionari. Insomma, i lavoratori dipendenti che hanno deciso di mantenere la liquidazione in azienda vincono a mani basse rispetto a coloro che l'hanno invece spostata sulla previdenza complementare e sui fondi di investimento.

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