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Solo lacrime e perdite per gli azionisti Tim: in 10 anni valore dei titoli dimezzato

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Andrea Giacobino
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Telecom Italia, più nota come Tim, ha una linea telefonica che in Borsa funziona malissimo per chi ci ha investito. Nell'ultimo decennio, infatti, il titolo ha perso oltre il 47% del suo valore, negli ultimi cinque anni quasi il 50% e nell'ultimo triennio il bilancio è solo leggermente migliore con un disavanzo dell'11%. Nel frattempo negli ultimi 23 anni al comando dell'ex monopolista pubblico delle telecomunicazioni si sono avvicendati ben 12 amministratori delegati che hanno incassato buonuscite complessive per oltre 100 milioni di euro. Fra i più grassi assegni di congedo assicurati ai capiazienda del gruppo tlc figurano i 25,8 milioni che si mise in tasca Roberto Colaninno per la gestione 1999-2001, seguiti dai 25 milioni finiti a Flavio Cattaneo numero uno del gruppo solo per il biennio 2016-2017. Anche l'ultimo amministratore delegato Luigi Gubitosi è stato accompagnato alla porta a fine novembre scorso con una buonuscita di quasi 7 milioni. Adesso è arrivato un nuovo ad, Pietro Labriola. Interista sfegatato e pieno di tatuaggi, è senz'altro un bravo manager avendo costruito il successo della principale controllata estera di Tim che è Tim Brasile. A scegliere Labriola sono stati i due soci principali del gruppo tlc, la francese Vivendi di Vincent Bolloré che ha il 25% circa e la Cassa Depositi e Prestiti col 9%. Labriola ha preso il posto di Gubitosi, dimissionato da Bolloré e dalla Cassa perché all'insaputa dei due grandi azionisti sarebbe stato il «cavallo di Troia» dell'Opa su tutto il gruppo annunciata dal fondo americano Kkr che pagherebbe 0,505 euro per ogni azione. Un prezzo che peraltro Tim non vede dal 25 novembre scorso: il consiglio del gruppo ha dato incarico agli advisor di valutare l'offerta, ma per ora nulla si sa e i soci che speravano di monetizzare possono aspettare.

 

 

 

Senza contare che Kkr detiene il 37,5% della rete secondaria di Tim, conferita lo scorso anno in una società separata, FiberCop, e quindi appare destinato a giocare comunque un ruolo nella partita. E il fondo americano dal 2008 attraverso i suoi investimenti in infrastrutture in tutto il mondo, Kkr ha messo sul piatto oltre 40 miliardi di dollari, molti dei quali proprio in Europa nel settore delle telecomunicazioni. Il piano di Labriola per risollevare le sorti del gruppo che vent'anni fa era il sesto operatore telefonico globale e oggi è solo diciassettesimo, è la divisione in due dell'azienda attraverso la scissione in una NetCo (società della rete) e ServiceCo (società dei servizi). La NetCo, in particolare, prelude alla sua fusione con la rete di Open Fiber e alla nascita della rete unica controllata proprio dalla Cassa. Così nella società della rete dovrebbero confluire tutte le attività strategiche del gruppo e quindi anche Sparkle e Telsy, mentre nella società dei servizi dovrebbero entrare le attività consumer in Italia e in Brasile, le attività dedicate ai grandi clienti, il cloud Noovle e Olivetti. Non è azzardato supporre che lo «spezzatino» di Tim serva in primo luogo a risolvere i problemi di Open Fiber dove la Cassa è salita la 60% avendo liquidato Enel, in compagnia del fondo Macquarie col restante 40%. In effetti nel 2020 Open Fiber ha segnato un utile di soli 3,5 milioni soprattutto grazie a una rivalutazione di 547 milioni dei suoi asset, resa possibile dal Decreto Agosto varato dal governo Conte. La divisione in due del gruppo, poi, ricorda il gioco dell'oca quando si torna al punto di partenza, o quasi. Correva infatti l'anno 2007 e la Pirelli di Marco Tronchetti Provera - azionista di controllo di turno di Tim, succeduto alla «razza padana» di Roberto Colaninno - era alle prese con Telecom ancora indebitata dalla «madre di tutte le Opa» del 1999 e in stallo strategico.

 

 

Il balzo in avanti, rimasto poi sulla carta, sarebbe stato imperniato anzitutto sullo scorporo della rete fissa che già all'epoca era destinata a essere «para-ripubblicizzata» presso la Cassa, soddisfacendo fra l'altro il vincolo strutturale rappresentato da Sparkle, gestore di connessioni strategiche sul piano geopolitico. Telecom, così alleggerita dei cavi, avrebbe potuto cominciare a librarsi come «media company»: più focalizzata sul binomio formato dalla rete mobile (all'epoca una delle più importanti anche a livello internazionale) e dalla produzione di contenuti. E se il finanziere messicano Carlos Slim era stato individuato come possibile partner del riassetto per le attività sudamericane del gruppo, Sky era virtualmente già seduta al tavolo, come fornitrice del contenuto «golden» per eccellenza (il calcio). Ma rumor mediatici e congetture di analisti chiamavano già in campo Mediaset (duopolista della tv generalista italiana) e Rcs: l'editore del Corriere della Sera, di cui allora proprio Pirelli era azionista rilevante. Oggi la separazione di Tim voluta da Labriola, col placet di Vivendi (che spera in un rialzo del titolo perché sul suo investimento sta perdendo centinaia di milioni) e dalla Cassa (per risolvere i nodi di OpenFiber) sembra un'altra musica. Ma intanto i tanti risparmiatori che speravano in un celere via libera del consiglio all'Opa di Kkr per monetizzare, sono rimasti a bocca asciutta.

 

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