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Un imprenditore suicida ogni 4 giorni. Colpa della crisi

Crolla il potere d'acquisto degli italiani

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Spread che salgono, recessione continua, crescita solo annunciata. E poi, tasse. Disgrazie. Tasse sulle disgrazie (vedi l'annunciato aumento della benzina). A farne le spese non sono certo politicanti e professori. Non che sia tutta colpa loro, per carità (solo Antonio Di Pietro poteva arrivare a pensare tanto), ma la situazione è grave. Nell'occhio del ciclone innanzitutto i lavoratori. E i disoccupati, sempre di più. Anche le aziende, però, stanno affogando. Un suicidio ogni quattro giorni da inizio anno: è il tributo di sangue che imprenditori e manager pagano alla crisi. Una mattanza che, secondo la Cgia di Mestre, conta dal primo gennaio ad oggi 23 vittime. Al Veneto, Regione che nell'immagine collettiva per anni è stata esempio di isola felice «motore» dello sviluppo, il triste primato di nove piccoli imprenditori che hanno deciso di togliersi la vita davanti alle crescenti difficoltà, tanto che lunedì a Vigonza (Padova) nascerà l'associzione familiari imprenditori suicidi. La crisi, in realtà, non  guarda in faccia né il Nord nè il Sud e la lista stilata dagli artigiani dice che Puglia, Sicilia e Toscana hanno finora pagato un conto di tre suicidi - l'ultimo venerdì con un manager di 42 anni che si è buttato sotto un treno a Sesto Fiorentino. Poi c'è il Lazio con due vittime; Lombardia, Abruzzo e Liguria con uno. I suicidi degli imprenditori italiani distrutti dalla crisi economica sono finiti anche sulla prima pagina dell'International Herald Tribune. In un lungo articolo dal titolo «Nella crisi della zona euro, lo stress diventa mortale», l'edizione mondiale del New York Times traccia un quadro delle difficoltà degli imprenditori europei concentrandosi in particolare sulla tragica scelta di alcuni imprenditori del Veneto, da Antonio Tamiozzo, che si impiccò la sera dell'ultimo dell'anno vicino a Vicenza a Giovanni Schiavon, che tre settimane prima si era sparato a Padova. Il quotidiano riconosce comunque che gli italiani «non sono gli unici» e racconta anche storie accadute in Grecia e in Irlanda, ma sottolinea in particolare che in Italia «spesso è il governo che non ha pagato i debiti contratti con gli imprenditori. La legislazione nazionale volta al contenimento della spesa pubblica - spiega il giornale - ha obbligato le amministrazioni centrali e locali ad accumulare miliardi di euro di arretrato con i creditori, "spremendo" molti piccoli imprenditori». «Il meccanismo si sta spezzando - dice Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia mestrina - questi suicidi sono un vero grido di allarme lanciato da chi non ce la fa più. Le tasse, la burocrazia, la stretta creditizia e i ritardi nei pagamenti hanno creato un clima ostile che penalizza chi fa impresa. Per molti, il suicidio è visto come un gesto di ribellione contro un sistema sordo ed insensibile che non riesce a cogliere la gravità della situazione». Un gesto estremo che nel 2010 per motivi economici, secondo gli ultimi dati Istat disponibili, ha segnato il destino di oltre 190 persone, senza però distinzioni di ruoli sociali. I numeri sui suicidi forniti dagli artigiani mostrano con evidenza, invece, l'exit strategy mortale scelta proprio da chi fa impresa. A offrire un segnale preoccupante sul piano strutturale, la difficoltà a sopravvivere che sembrano avere le aziende appena nate. A dirlo è sempre la Cgia, che presenta impietosa un raffronto tra il 2004 e il 2009. Se nel 2004 le aziende che non superavano i 5 anni di apertura erano il 45,4% del totale (Lazio 51,1%, Campania 49,8%, Calabria 49,1%, Sicilia 48,3%); cinque anni dopo la percentuale sale a 49,6% (Lazio 54,6%, Sicilia 51,9%, Calabria 50,4%, Liguria 50,1%). Sono numeri impietosi. Dati di un problema. Ai professori l'arduo compito di trovare la soluzione.

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