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Marchionne licenzia Marcegaglia

La presidente di Confindustria Emma Marcegaglia

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Alla fine Sergio Marchionne è riuscito a licenziare qualcuno in Italia: Emma Marcegaglia. Ed in ciò che ha scritto e detto il numero uno del Lingotto, nessuna parola è scelta a caso. Per esempio, a chi gli chiedeva se l'uscita della Fiat da Confindustria lasci uno spiraglio di ripensamento, secondo lo stile italico: «Il nostro è un addio ufficiale, non facciamo entrate e uscite. Per noi la Confindustria politica ha zero interesse. Siamo lontanissimi. Fateci fare gli industriali». Dunque la novità è: secondo il top manager della prima azienda privata italiana, per «fare gli industriali» è oggi più utile, anzi fondamentale, l'articolo 8 della manovra del governo, che non le iniziative confindustriali, i riti concertativi, i manifesti, gli appelli e le proteste della sua presidente. E per questo la Fiat, dopo centouno anni nei quali ha fornito direttamente due presidenti (Gianni Agnelli e Luca di Montezemolo) e molti altri ne ha fatti eleggere, della Confindustria non farà più parte. La lettera alla Marcegaglia dice sostanzialmente tre cose. Prima: negli ultimi mesi, dopo anni di immobilismo, sono state prese in Italia «due importanti decisioni per creare le condizioni di rilancio del sistema economico». Seconda: queste decisioni sono l'accordo Confindustria-sindacati del 28 giugno, che estende a livello nazionale le intese aziendali e territoriali; e l'articolo 8 della manovra governativa che dà a questo accordo forza di legge. Terza cosa: il 21 settembre la Confindustria ha però stretto un nuovo patto con le confederazioni che «ha fortemente ridimensionato le aspettative sull'articolo 8». Si tratta della famosa stretta di mano tra la Marcegaglia e Susanna Camusso, suggello e premessa di una nuova stagione di concertazione con la Cgil. Ma anche snodo fondamentale dell'attuale fase movimentista e antigovernativa della presidentessa degli industriali. Quella che Marchionne definisce «la Confindustria politica, che per noi ha zero interesse». Tirate le somme, il bilancio è: Fiat fuori dalla Confindustria; Fiat che si sente tutelata dal governo al punto da confermare e potenziare gli investimenti italiani, Mirafiori su tutti; Confindustria che prima minimizza («Il gruppo pesa meno di 5 milioni di contributi»), poi, con la stessa Marcegaglia, risponde alquanto piccata: «Le motivazioni di Marchionne non stanno in piedi». A livello politico: governo che incassa l'apprezzamento di un manager che non regala nulla, ma soprattutto del protagonista di quella che è ormai una case history a livello mondiale; sinistra politica e sindacale in pieno imbarazzo; fronte imprenditoriale (ma esiste ancora un fronte imprenditoriale?) in ordine sparso. Neppure il più acuto antipatizzante di Emma Marcegaglia poteva augurarsi tanto. Ma ha ragione Marchionne? Secondo noi sì. E dove ha sbagliato la Marcegaglia? Nel mischiare oltre il limite il ruolo di rappresentante del mondo produttivo con quello di improvvisata parte in causa politica. Ci spieghiamo meglio. Marchionne non è certo un santo, però ha preso la più decotta delle aziende automobilistiche americane, la Chrysler, e l'ha rimessa in piedi. Gli ultimi dati, resi noti ieri, lo confermano. Sta tentando di fare lo stesso con la Fiat, con esiti da verificare ma con metodi produttivi e di relazioni industriali che qui sembrano eresia: difatti è stato denunciato per attentato alla Costituzione. Eppure si tratta delle stesse regole accettate dalla Casa Bianca e dalla Uaw, il sindacato americano dell'auto. Quanto alle norme di legge – il corrispondente dell'articolo 8 – esse sono state introdotte in Germania già dal cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder, e sono le stesse chieste al governo italiano dalla lettera del 5 ottobre della Banca centrale europea. Citiamo testualmente: «C'è l'esigenza di riformare ulteriormente la contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi a livello d'impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione». Può piacere o no, ma questo è ciò che chiede l'Europa. Soprattutto, così funzionano i nostri competitori mondiali, nell'auto e altrove. Anche la Confindustria, e non solo Marchionne, lo ha predicato per anni, fino al protocollo del 28 giugno. Smentito due mesi dopo proprio mentre la Marcegaglia partiva lancia in resta contro Berlusconi. Coincidenza? Sia chiaro: ogni imprenditore è libero di criticare qualsiasi governo. E spesso ha ragione. In questi giorni si susseguono le denunce: ultima di Diego Della Valle, e ben prima di Montezemolo. Ma quando un industriale parla con nome e cognome, egli risponde di se stesso e della propria azienda. Quando il numero uno di Confindustria si getta nella mischia politica, rischia di trascinarvi l'intero sistema imprenditoriale e sindacale. La Marcegaglia ha utilizzato il famoso articolo 8 come una clava, come un mezzo e non un fine? E' quanto sospetta Marchionne, e non solo lui. Quando Confindustria e Cgil intimano al governo di non mettere becco nelle leggi sul lavoro, perché è cosa loro (pardon: «materia delle parti») commettono un errore storico e soprattutto strategico. Lo Statuto dei lavoratori è una legge dello Stato. L'intervento sulle norme attuali non può e non deve essere sottratto alla responsabilità di governi e parlamenti. Troppo comodo. È l'opinione di Marchionne come di Mario Draghi e Jean-Claude Trichet. Marchionne faccia le auto, e possibilmente le venda; Berlusconi faccia le riforme necessarie, oppure lasci la parola agli elettori. Emma Marcegaglia badi che le intese vengano correttamente applicate. Così funzionano le cose nei paesi civili. Ciò che non può andare è il «lui nella parte di lei», e viceversa: tra le gag di Hollywood sono quelle che non fanno mai ridere.

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