Cerca
Logo
Cerca
Edicola digitale
+

Le agenzie di rating vanno chiuse

La sede dell'agenzia di rating Standard and Poor's a New York

  • a
  • a
  • a

Se nasci nella parte giusta del mondo, l'Occidente, puoi anche limitarti a ringraziare Dio o la buona sorte. Ma se nell'unica area in cui nonostante tutto coabitano benessere, democrazia e libertà civili vuoi essere anche classe dirigente, allora devi meritartelo. Ogni giorno. Lo stiamo facendo? Lo pretendiamo dai leader che abbiamo installato alla Casa Bianca, alla Cancelleria, a palazzo Chigi? Lo reclamiamo dalle opposizioni e da quel complesso di istituzioni depositarie del diritto di controllo e giustizia che gli anglosassoni chiamano «balance of power»? Dagli attori e dagli arbitri del mercato? Oggi, non pare proprio. E la questione di Standard & Poor's – cui tra poche settimane si aggiungerà Moody's – è in fondo solo una minima parte del problema. Minima, ma amplificata nelle conseguenze e nelle reazioni italiane, a dimostrazione di quanto siamo ormai dediti al harikiri collettivo. Cominciamo da qui, dal bordo della spirale. L'anomalia non è che S&P declassi l'Italia, l'anomalia è che i governi di qua e di là dell'Atlantico non abbiano ancora declassato le agenzie di rating. Potevano farlo quando tutte e tre sbagliarono clamorosamente su Lehman Brothers e dintorni all'epoca della crisi dei subprime: ma allora alla Casa Bianca e ai governi di Londra, Parigi e Berlino faceva comodo evitare altri crac, e quindi altri soccorsi con i soldi dei contribuenti. Le sorelle del rating fallirono di nuovo un anno e mezzo dopo su Grecia e Islanda, ma anche su Irlanda, Portogallo e Spagna. Ma neppure in quel caso né l'Europa né gli Usa vollero togliersi di torno questi arbitri parziali e inattendibili, per delegare almeno il giudizio sui debiti degli stati all'infinità di istituzioni pubbliche che paghiamo profumatamente. Inettitudine o altro? Propendiamo per la seconda ipotesi. Ai paesi forti, Usa e Germania in testa, le triple A fanno molto comodo per dirottare sui loro titoli di Stato il risparmio che si indirizzava sulle economie periferiche. Il cosiddetto flight to quality, il salto verso la garanzia assoluta, ha consentito al Tesoro tedesco e americano di ripagare i rispettivi debiti – compresi i soldi elargiti alle banche – a tassi minimi. Quanto a noi, potevamo pur sempre esibire rating notevoli rispetto ai diretti concorrenti, e ogni tanto cercare il colpaccio, come quando il Bologna va a vincere a San Siro. A far saltare il tavolo e gettare nel caos Barack Obama, Angela Merkel e soci è stato prima il caso Grecia, poi il declassamento di Standard & Poor's del debito Usa. Di Atene si discute senza costrutto da aprile 2010. Un paese con un Pil di 200 miliardi, non molto superiore a quello del Lazio, una classe politica che ha truccato i conti, tengono da due anni in scacco l'Europa intera, i nostri risparmi, gli investimenti, il futuro. Non ci si decide né a lasciare la Grecia al suo destino né ad aiutarla come promesso. È noto che le banche francesi, e in subordine quelle tedesche, sono imbottite di titoli greci: la stima prudenziale è di 90 miliardi di euro. Così come è noto che le banche tedesche, e in subordine quelle francesi, lo sono di titoli spagnoli: per 230 miliardi. Se la Grecia uscisse dall'euro il sistema bancario francese sopravviverebbe a stento, se accadesse alla Spagna quello tedesco colerebbe a picco. E questo spiega come mai in queste ore del default ellenico si discuta in teleconferenze a tre: Merkel, Sarkozy e, dall'altro capo, il primo ministro George Papandreu o il massiccio ministro delle finanze Evangelos Venizelos. Oppure perché la Merkel si affanni a dichiarare che «la crisi dell'euro sarebbe la fine dell'Europa», mentre i tedeschi della Bce e della Bundesbank sostengono l'esatto contrario: che non è giusto sostenere i Paesi a rischio con quattrini dei contribuenti.   E noi che ruolo giochiamo? Siamo, per dirla con Giulio Tremonti, «nella mani della Germania». Su Grecia e Spagna abbiamo un'esposizione minima, di pochi miliardi. Però siamo i terzi contribuenti del cosiddetto fondo salva-stati, l'Efsf (quanto a sigle, l'Europa non la batte nessuno), con 150 miliardi, che potrebbero più che raddoppiare se il fondo venisse portato dagli attuali 770 a 2 mila miliardi. A luglio, in piena emergenza sui Btp, abbiamo sganciato ad Atene 13 miliardi: ad un tasso del 3,5 per cento, mentre dovevamo collocare i nostri titoli a quasi il 6. Ed è al rischio Grecia che dobbiamo la super-manovra da 53 miliardi, con conseguenti declassamenti di rating. Certo, non è semplice autolesionismo: se ci tirassimo indietro i tedeschi ci mollerebbero. Ma al tempo stesso è l'ennesima dimostrazione di come funzionino oggi i perversi meccanismi europei. Neppure i commenti e lo spirito d'iniziativa tremontiani appaiono in linea con colui che fino a ieri era il superministro dell'Economia; e che ora è azzoppato dal caso Milanese, sulle cui manette si pronuncia domani la Camera. Così come l'accerchiamento giudiziario a Silvio Berlusconi, che non si placa (anzi, si incarognisce) neppure nel mezzo di un'emergenza nazionale, impedisce che il governo recuperi ruolo e presenza ai tavoli che contano. Ecco perché un downgrading accolto con un'alzata di spalle dalle borse, come un dente tolto, ha un impatto molto più sul fronte interno. Il Cavaliere è «una parte del problema»? Il problema stesso? Se governassero la sinistra e la Cgil il rating farebbe scintille? Standard & Poor's ha pensato bene di entrare nel nostro pollaio politico, parlando di fragilità del governo: con Bersani, Vendola & Di Pietro saremmo più solidi? Ma se si leggono con attenzione anche i giudizi che ormai Moody's sforna ogni giorno sulla manovra, ci si imbatte in una imprevista difesa «delle risorse degli enti locali», quasi che questi emissari di Wall Street fossero l'associazione dei Comuni o l'unione Province. Quindi non ha tutti i torti Berlusconi nello scorgere una operazione ad ampio raggio per farlo fuori. Senza prigionieri. A questo punto che cosa servirebbe? Che Tremonti, anziché il piano decennale promesso ieri, tirasse fuori qualche misura immediata per la crescita. Magari una delle innumerevoli riforme «a costo zero» degli ultimi mesi e subito sepolte chissà dove. Che la politica di destra e di sinistra si rendesse conto che esiste un interesse nazionale, più importante di come passava le serate il Cavaliere e della guerra fra procure su chi deve piazzarsi meglio al buco della serratura. E che solo superata l'emergenza regolasse i conti nelle urne. Che la Merkel si comportasse come i leader che l'hanno preceduta ricostruendo l'Europa, ed Obama si ricordasse che la bandiera a stelle e strisce è stata amata o odiata, ma sempre temuta. Che questo Occidente di cui siamo una piccola parte comprendesse appunto che non basta arrivare al potere nei paesi più ricchi e liberi, se poi non sai che fare. Altrimenti dovremo dare le chiavi di casa non a Standard & Poor's né a Bersani: le consegneremo alla Cina, alla Russia e al Brasile. I cui rating, per inciso, sono: AA-, BBB e BBB-.

Dai blog