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Gli Usa non sono più la guida del mondo

Barack Obama

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Esce nelle sale cinematografiche Captain America: ma l'America non ha davvero più un capitano da seguire. Ed anzi teme un imminente Armageddon. Obama rischia di passare alla storia come il primo presidente a condurre gli Stati Uniti al default oppure come il primo a veder togliere agli Usa la tripla A delle agenzie di rating, in settanta anni che prosperano questi furbacchioni di Wall Street; o ancora come il capo della Casa Bianca costretto all'umiliante attesa di una telefonata dei maggiorenti repubblicani alla Camera per concordare un piano di riduzione del debito federale; o infine a rincorrere un negoziato al ribasso tra congressmen avversari per autorizzare l'aumento dello stesso debito senza però nessuna manovra né progetto sul bilancio e sull'economia pubblica. Il declino dell'impero del dollaro segue puntualmente quello dell'impero americano. Bye bye Captain America. I fatti. La crisi finanziaria globale, la generosa politica espansiva della Federal Reserve e gli aiuti pubblici accordati alle banche e alle industria hanno prodotto un deficit federale pari al 10,8 per cento del Pil, e soprattutto un debito pubblico che a fine 2011 rischia di superare il 100 per cento (oggi è al 99,5), e che le previsioni danno al 112 tra cinque anni. Performance negative che non si vedevano dagli anni Quaranta, quando peraltro gli americani erano impegnati a sconfiggere i nazisti in Europa ed a sganciare sul Giappone le due bombe atomiche. Insomma, a vincere la Seconda Guerra mondiale. Anche Ronald Reagan ed i due Bush padre e figlio spinsero molto sulle spese militari a scapito del bilancio pubblico. Ma il primo vinse la guerra fredda e costrinse alla resa l'impero sovietico ed il comunismo. I secondi, e soprattutto George W. Bush, si sono impegnati nella guerra mondiale al terrorismo; e se Obama ha metaforicamente potuto esibire lo scalpo di Osama Bin Laden lo deve al tanto contestato predecessore repubblicano. Che comunque, ancora nel 2006, poteva esibire un debito federale del 61% del Pil, la metà di quello che si avvia ad essere. L'antefatto di questa situazione è paradossale. Obama deve gran parte dell'elezione nel 2008 e dell'ancora più strabiliante successo mediatico al crac di Wall Street, alla violenta reazione popolare contro gli squali della finanza, alla disullusione della guerra. E inoltre alla promessa di riportare la grande bilancia del potere americano a pendere sul piatto delle riforme sociali anziché su quello del liberismo e del mercato. Uno scambio tra egualitarismo e libertà - l'eterno dilemma delle democrazie - che si è finora risolto in un fiasco totale. Fallita la Lehman, i big della finanza sono tutti risorti dalle loro ceneri, e così quelli dell'industria. Colossi simbolo come la Goldman Sachs e la Microsoft hanno presentato trimestrali superiori ad ogni attesa, e di questo è giusto rallegrarsi. Ma contemporaneamente hanno ripreso a macinare utili anche gli hedge fund da miliardi di dollari ai quali Obama aveva dichiarato guerra. Mentre tutto ciò avveniva a Wall Street, a Washington cadevano una dopo l'altra le riforme che dovevano marcare la nuova frontiera di Barack: la sanità per tutti, l'aumento delle tasse ai ricchi, le garanzie su mutui e debiti affinché i milioni di Mr. Smith da Seattle a Richmond, e le loro famiglie, non vedessero mai più in faccia lo spettro del fallimento. Quella «big society» eternamente promessa da ogni presidente democratico; ma che solo con Jack Kennedy per la brevità del suo mandato, e con Bill Clinton grazie al compromesso con l'alta finanza e alla nonchalance sulle questioni militari e di sicurezza, si può dire si sia in parte realizzata. Oggi su Obama si staglia sempre più l'ombra imbarazzante di Jimmy Carter: dalla grande società alla grande resa. Ma, a differenza che negli anni Settanta quando dall'altra parte c'era un nemico concreto e comune, il comunismo appunto, oggi di là c'è un avversario al quale gli Usa e l'Occidente non erano preparati. La Cina, e dietro di lei tutte le economie emergenti. Pechino ha in pugno oltre un terzo del debito americano, sotto forma di Bond del Tesoro e garanzie sulle quote detenute da altri stati. I dirigenti cinesi hanno più volte alzato la voce chiedendo una guida economica più ferma alla Casa Bianca. Hanno assistito con disappunto alla disfatta democratica alle elezioni di mid-term nel 2010, non perché simpatizzino per il partito dell'asinello ma perché sono abituati a trattare con un interlocutore unico, e possibilmente forte. Da lunedì 25 i cinesi potrebbero cominciare a disfarsi delle posizioni in dollari, rafforzando per esempio i paesi a rischio della zona euro dove si compra a saldo. Oppure, più probabile, investendo negli scacchieri strategici dimenticati da Obama: dal Sud America all'Africa, fino naturalmente alla grande piattaforma asiatica e pacifica. Tutte aree ricche tra l'altro di materie prime, con paesi in pieno boom demografico ed economico. A questa gigantesca partita l'Europa assiste con la speranza che la sconfitta di Obama, ed il conseguente ridimensionamento del dollaro, rilancino l'euro e quindi puntellino le traballanti leadership di Berlino, Parigi, Londra e Roma. Errore. Il declino dell'America è anche il declino dell'Occidente, nella sua accezione geografica, politica ed economica. L'esempio tipico è il Giappone, che pur da concorrente nel mondo economico occidentale è stato integrato per decenni: ed ora, superato dalla Cina come seconda economia mondiale, da partner degli Usa e dell'Europa si avvia ad essere una sorta di mercato sussidiario di Pechino e Shanghai. Senza contare, oltre alla Cina, le ambizioni della Russia. Certo, neppure a Mosca così come a Pechino alla libertà economica si è affiancata quella politica. Questa doveva però essere la missione, anzi il dovere degli Usa e dell'Europa: forti e libere leadership politiche in grado di indicare la rotta al mondo, un modello di società, un concetto di sicurezza. Per questo era stato in fondo immaginato il Patto atlantico. Che cosa sia la Nato oggi, senza gli americani, lo vediamo in Libia. Che cosa sarà il mondo domani, dopo un eventuale big bang del dollaro e con l'euro nelle mani che abbiamo visto, è difficile da dire. Certo: dopo Carter venne Reagan, il vero Captain America; mentre l'Europa seppe offrire Margaret Thatcher. Per ora non scorgiamo né Reagan né Thatcher. Troppo lusso per il vecchio e sfiancato Atlantico.

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