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Tagli alla politica e meno tasse

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Finanziare la riforma fiscale con i tagli alla politica. Ci fa piacere che Giulio Tremonti sia giunto, con altra autorevolezza, alle stesse conclusioni che avevamo suggerito sabato 11 giugno, a poche ore da quel referendum che non ha segnato solo una sconfitta del governo ma un ben più profondo smottamento dell'opinione pubblica. «Meno tasse. Più coraggio» titolò Il Tempo, suggerendo di impugnare la scure prima ancora del bilancino. Il titolare dell'Economia, illustrando come mai prima ciò che ha in mente, ha usato il linguaggio del politico, non quello abituale del tecnico. Ha lanciato un messaggio e aperto un orizzonte: qualcosa di cui nel centrodestra si sentiva da tempo la mancanza e che dovrebbe volare sopra la guerra di sopravvivenza tra Pdl e Lega. Tremonti, però, è appena all'inizio e deve guardarsi da due cose: dal proprio ego, e quindi dall'idea di avere esaurito così il compito; e dal fuoco amico. Il ministro ha ammesso che una riforma fiscale seria deve portare ad una riduzione sensibile del carico delle imposte, e dunque non può essere fatta a costo zero. Che l'Italia abbia una pressione sulle persone di tre punti sopra la media europea, e senza servizi adeguati, lo sappiamo da tempo. Ora il rapporto Paying Taxes 2011 di PW Italia, appena uscito, rivela che il prelievo complessivo sulle imprese ha raggiunto da noi il 68 per cento, il record d'Europa. La media Ue è il 44,2; la Germania che amiamo prendere a modello si colloca al 48,2. Se invece ci riferiamo alle tasse sulla sola componente lavoro, il documento Taxation trends in the European Union di Eurostat ci assegna un altro sgradevole primato: con il 42,8 siamo ancora il paese più tartassato, oltre otto punti sopra la media. Al contrario, siamo terzultimi nelle imposte sui consumi davanti a Spagna e Grecia. Seguendo questa traccia sembra naturale trarre dall'Iva la gran parte delle risorse necessarie per ridurre Irpef, Ires e Irap. «Spostare il prelievo dalle persone alle cose», secondo il mantra tremontiano. Ma il ministro ha osato di più indicando nei costi della politica il vero moloch da abbattere, e la vera miniera a cui attingere. Ha parlato di voli di Stato e di gipponi, di finestre e palestre usate come bancomat fiscale, di stipendi ai manager pubblici da riportare entro le medie europee. Siamo assolutamente d'accordo. Un'imposta maggiorata sui Suv e sulle auto altamente inquinanti – come esiste da anni in molte parti del mondo, compresi quelle più sensibili alle lobby automobilistiche – sarebbe non solo logica ma doverosa. Così come il blocco dei voli di Stato che oggi scorrazzano non solo i ministri, ma parlamentari, assessori, consiglieri e loro cari. Però ci permettiamo di insistere: l'appello è sacrosanto, ma presuppone buona volontà e senso etico. Mentre se riducessimo della metà i 170 mila consiglieri e assessori regionali, provinciali e comunali che attualmente manteniamo, si ridurrebbero di conseguenza anche i voli e le auto blu. E quindi perché non riprendere, oltre all'abolizione delle Province, anche la promessa del taglio dei parlamentari? La riforma costituzionale approvata dal centrodestra nel 2006 lo prevedeva: 518 deputati anziché 630 e 252 eletti in un nuovo senato federale anziché i 315 che replicano i colleghi di Montecitorio. Pensiamo che si possa andare molto oltre: 100 senatori (quanti negli Stati Uniti) e 300 deputati (negli Usa sono 435). Niente senatori a vita e di diritto: la scienza e la cultura si onorano con la pratica, non con le cadreghe; mentre se un capo di Stato americano, francese, tedesco a fine mandato torna a fare il privato cittadino, o a cimentarsi con le proprie armi in politica, non si capisce perché da noi debba avere diritti che perfino l'Inghilterra ha cancellato dalla Camera dei Lord. Ma il senso di questa riforma non sarebbe solo pratico ed etico; bensì anche politico. Seguiteci. Dopo la vittoria della sinistra alle amministrative, dopo il successo del «popolo dell'acqua» nei referendum, è venuta in auge una parola: «constituency». Indica non solo la base elettorale di uno schieramento, ma la sua ragion d'essere, il patto tra eletti ed elettori. La constituency del centrodestra è in crisi, è vero. Ma la crisi dipende anche dal fatto che è cessato il flusso ideale e politico che la alimentava. Quelle riforme liberali che a lungo hanno fatto sperare in un'Italia moderna ed efficiente (non diciamo migliore). Ora, che cosa c'è di più liberale di una restituzione di tasse ai cittadini finanziata da quella parte di spesa pubblica fatta non dalla scuola o dall'assistenza medica, ma dalla burocrazia statale, regionale, provinciale, comunale? E questa è una riforma che può fare solo uno schieramento moderato: un centrodestra che riscopra se stesso e la sua anima. L'opposizione, la sinistra, e tanto più la sinistra referendaria e vendoliana, ha nel Dna tutt'altro. La dimostrazione è nei fatti. Bersani può invocare anche lui quanto vuole i tagli della politica; ma è un dato che quella riforma del 2006 venne cancellata dalla sinistra per referendum. Così come oggi è il risultato di questo referendum a produrre effetti dei quali ci si sta accorgendo solo a urne chiuse: per esempio, almeno 60 miliardi serviranno nei prossimi anni ai comuni per sistemare le reti idriche. A chi pensate che chiederanno questi soldi? Altro esempio: con l'abolizione della forma privatistica, un esercito di duemila sindaci, assessori e consiglieri potrà tornare negli organi di gestione degli acquedotti. Chi li paga? Ecco perché la sinistra è geneticamente incapace di una riforma che parta dal dimezzamento del moloch pubblico e rimetta al centro il cittadino-contribuente. Con il suo portafoglio, certo, ma anche con priorità e valori. Che non prevedono per nulla l'affamamento del popolo e la chiusura di biblioteche e centri di ricerca: fu sotto Ronald Reagan che l'America riconquistò il primato scientifico e tecnologico che si è poi trasferito, con Clinton, in internet e nella new economy. La sinistra, con la via che sta imboccando, dimostra di avere altri orizzonti, altri obiettivi strategici. Un'altra consituency appunto. Che vedremo all'opera nei governi locali, e di questo passo anche in quello nazionale. Assolutamente legittimo, per carità. Ma anche assolutamente diverso da tutto ciò che riguarda un'idea liberale dell'Italia. Che adesso rischia di restare sotto le macerie dell'impero berlusconiano: e che – lo dimostra il discorso di Tremonti – avrebbe ancora una chance, se lo volesse.

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