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Non solo Parmalat Il made in Italy va difeso

La bandiera dell'Italia

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La Parmalat ha chiuso il 2010 con 4,3 miliardi di ricavi, 282 milioni di utile, zero debiti e 1,5 miliardi in cassa. Lactalis Italia ha invece un bilancio 2009 (ultimo disponibile) di 1,29 miliardi di ricavi, 19,7 milioni di utile e 880 milioni di debiti. Come ormai ben sappiamo, il gruppo francese sta scalando Parmalat. Qualcuno potrebbe chiedersi: come fa un'azienda ad impadronirsi di una concorrente dalle dimensioni quasi quadruple? E soprattutto: in che modo 880 milioni di debiti, oltre due terzi dei ricavi, possono confrontarsi con debiti zero ed un tesoretto di un miliardo e mezzo? Domanda un po' ingenua perché contiene in sé la risposta: il leveraged buy-out è quella tecnica, ben nota agli aficionados della finanza spinta, con la quale il predatore si indebita con le banche per la scalata e subito dopo restituisce il capitale più generosi interessi dando come garanzia le casse della preda. E con il resto provvede anche alle proprie necessità. Per comprare il 15,3 per cento di Parmalat fino ad allora in mano a tre fondi stranieri (Zenit Asset Management, Skagen As e Mackenzie Financial Corporation) Lactalis ha sborsato tre settimane fa 744 milioni, attraverso un meccanismo di swapping – opzioni in cambio di contante – messo in piedi dalla banca francese Société Générale. In questo modo, sommando quando già aveva rastrellato alle azioni superpagate ai fondi esteri (2,8 euro, ben oltre il valore di borsa) è giunta ad un passo dal 30 per cento oltre il quale scatta l'opa obbligatoria su tutto il capitale. Nulla di nuovo sotto il cielo delle guerre finanziarie. Lactalis è un gruppo di tutto rispetto, che vanta la fama di aver risanato ogni azienda che ha comprato. In Italia l'elenco è già lungo: Galbani, Locatelli, Invernizzi, Cademartori. Tutti nomi ben noti a quanti frequentano i supermercati o gli spot televisivi, pensando forse di mettere in tavola il meglio del made in Italy. Il seguito è altrettanto noto: Giulio Tremonti ha bloccato la scalata prima con una serie di norme a difesa della strategicità di alcuni nostri comparti industriali, poi cercando di riunire una cordata alternativa. E siccome i nostri industriali, cuor di leone nei dibattiti, esitano a tira fuori il contante, il ministro ha messo in pista la Cassa depositi e prestiti, che ora, dopo la modifica allo statuto, potrà intervenire a difesa di comparti e aziende di interesse nazionale attraverso un fondo dotato di 20 miliardi di liquidità, frutto della valorizzazione degli oltre 200 miliardi di risparmio postale che amministra. E' uno strumento identico alla Cdc francese e simile alla Kfw tedesca, che esistono da decenni e hanno contribuito non poco alla ricostruzione e alla difesa dei comparti industriali strategici francesi e tedeschi. Eppure, apriti cielo! Molti hanno gridato al ritorno dell'Iri, dello stato pasticciere, del governo padrone. Si è invocata l'Antitrust italiana e quella europea, tra parentesi proprio nel momento in cui l'Europa ci mandava cortesemente al diavolo per la vicenda immigrati. Tra le proteste si segnala la Confindustria di Emma Marcegaglia, un'ottima imprenditrice, ma che sulla faccenda dovrebbe forse mettersi d'accordo con se stessa: prima si è schierata per l'italianità di Parmalat, poi ha criticato la cordata italiana; prima ha lamentato l'assenza di una politica industriale, poi ha detto che non vuole il ritorno dello stato imprenditore. Infine molti accademici hanno fatto notare che tra i settori strategici francesi non c'è l'alimentare. E' vero (anche se per la Danone intervenne pesantemente la mano pubblica), ma ogni paese ha il diritto di decidere che cosa è strategico per i propri interessi nazionali e per il proprio tessuto produttivo. Il problema, però, non è la Parmalat. C'è ben altro in questo momento sul piatto. L'EdF, il colosso pubblico francese dell'Energia, è contemporaneamente alleato dell'Enel, socio dell'Eni nel gasdotto South Stream, scalatore di Edison e, notizia di queste ore, interessato a comprarsi Sorgenia, l'azienda di «energie verdi» di Carlo De Benedetti. Facendo al meglio il proprio lavoro, EdF sta effettuando in Italia uno shopping che va dal petrolio al fotovoltaico, dal gas alla produzione e distribuzione di elettricità. Vogliamo dire che l'energia non è un settore strategico? Mettiamo pure tra parentesi la guerra, non ancora chiusa, sempre francese su Ligresti, Mediobanca, Generali. Ed andiamo dritti al cuore di tutto. In giro per il mondo, ben oltre i francesi, ci sono i fondi sovrani di Cina, Russia, paesi arabi - tra i quali la Libia – e presto India e Brasile. Questi non guardano certo in faccia né alle regole europee (quali?) né tantomeno all'Antitrust italiano. Il loro potenziale d'investimento è stimato in 3.811,7 miliardi di dollari, il doppio del Pil italiano. Rappresentano la sesta grandezza economica del pianeta dopo le banche private, il Pil mondiale, le borse, i fondi pensione e le assicurazioni. Prima degli hedge fund e delle riserve delle banche centrali. Di fronte a questa potenza di fuoco, come Italia, abbiamo 249 comparti definiti di assoluta eccellenza da un indice (l'Iec) appena elaborato dalla Fondazione Edison. Si va dagli elicotteri agli yacht, dagli occhiali da sole alla pasta. Nell'export mondiale, siamo nelle prime cinque posizioni con 1.593 prodotti per un valore di 253 miliardi di dollari. In prima posizione, appunto, con 249 prodotti che valgono 71 miliardi di dollari. Vogliamo tenerceli stretti oppure esporli al rischio di qualche Parmalat moltiplicata per dieci? E se questo comporta la creazione di uno strumento tipo Iri, che male c'è? La vecchia Iri aveva molti vizi, ma anche moltissime virtù: ha dato all'Italia le autostrade, la leadership nella telefonia e nella siderurgia, ottimi cantieri e l'hi-tech aerospaziale. Abbiamo mantenuto una buona presenza nell'energia grazie all'Eni e all'Enel, e nella difesa con la Finmeccanica. Tutte aziende pubbliche. Ma nel frattempo la geostrategia economica (e presto forse anche militare) è cambiata. La Cina è la seconda potenza mondiale dopo gli Usa; ambisce al primo posto. Se vogliamo ancora avere un senso come paese produttore, e non solo consumatore a caro prezzo di merci altrui, ci dobbiamo difendere. Certo, non con le armi dei convegni.

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