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Il miracolo al Lingotto: italiano ma costruito all'estero

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{{IMG_SX}}La vecchia Fiat si congeda con un trimestre "eccezionale", anzi "fantastico" per dirla con Sergio Marchionne. Era lecito, infatti, temere il peggio a giudicare dalla brusca frenata del mercato italiano o dai conflitti, da Termini Imerese a Pomigliano, che hanno ammaccato la fama di Marchionne, già icona, agli occhi di Guglielmo Epifani, del manager illuminato, oggi trattato come un "nuovo Valletta" (cosa che, dati i risultati del Professore, non sembra poi un insulto). Al contrario, la società del Lingotto si avvia allo spin off, cioè alla separazione tra Auto e altre attività «Industrial» (dove finiranno Iveco, Cnh, motori marini e così via) con un risultato lusinghiero: ritorno all'utile netto (113 milioni contro una perdita di 179 un anno fa); più ricavi (il 13,5 % in più nella prima metà dell'anno); un miliardo in meno di debiti, scesi a 3,7 miliardi. E la prospettiva di ritoccare in meglio le previsioni già il 16 settembre, quando le assemblee approveranno lo «spezzatino» del Lingotto e l'assegnazione, per ogni titolo Fiat di un titolo «Industrial» quotato in Borsa dall'inizio di gennaio. Ma come si spiega il piccolo miracolo? In più modi. Primo, l'ottima salute del Brasile, grazie anche alla rivalutazione del real, la valuta carioca, che si è tradotta in un grosso aiuto per il Lingotto. Altrettanto importante, la ripresa dei camion del Lingotto, in Europa e in Sud America e, più ancora, il boom delle macchine agricole e movimento terra di Cnh, la consociata di Chicago che vende in tutto il mondo, Asia in testa. Insomma, il miracolo Fiat ha ben poco di italiano. E potrebbe averne ancor meno domani, con il rilancio della Chrysler. Se la terapia di Marchionne avrà successo, infatti, tra un anno la quota del Lingotto in Chrysler (oggi in bilancio a zero euro) potrebbe valere almeno 4 miliardi di dollari. E assai di più nel 2014, quando il gruppo torinese potrebbe rilevare la maggioranza, come previsto dagli accordi con Barack Obama. Entro allora, secondo i piani di Marchionne, dalla «Fabbrica Italia», cioè dagli impianti del gruppo nel Bel Paese, dovrebbero uscire 1,4 milioni di vetture, più del doppio di quelle oggi prodotte. Se le cose andranno così, cioè se gli stabilimenti del gruppo in terra italiana rispetteranno gli stessi standard di qualità e di efficienza di Tychy, Polonia, piuttosto che di Belo Horizonte, Brasile, ma anche di Jefferson North Plant, Michigan, dove il sindacato ha collaborato con entusiasmo all'introduzione dei metodi di lavoro «Wcm» alla giapponese introdotte da Fiat, l'Italia parteciperà a pieno titolo alle avventure di un gruppo che può dire la sua in una competizione internazionale. Altrimenti, al di là delle smentite ufficiali, nei fatti prenderà corpo il «piano B»: la testa a Torino (finché dura), assieme ad alcune lavorazioni di nicchia (il montaggio dei Suv Chrysler nella fabbrica ex Bertone) o di grande prestigio, vedi Ferrari. Ma il resto altrove. Per carità, è ovvio che la «500» destinata al mercato Usa o brasiliano venga prodotta al di là dell'Atlantico, nello stabilimento messicano di Chrysler. Ma il fenomeno potrebbe spingersi ben più in là, come hanno capito gli operai francesi che, a Strasburgo, hanno accettato in un referendum il taglio della paga e delle ferie di un buon 10 per cento pur di scongiurare il trasloco di una fabbrica Gm (cioè controllata dal governo Usa) proprio in Messico. Inutile, in questi casi, gridare al ricatto. In questi anni di emergenza lavoro nessuno, nei Paesi ricchi come tra gli emergenti, intende fare sconti. Guai ad illudersi che ci sia il tempo o la voglia per accettare i rituali del sindacalismo nostrano. O, peggio ancora, del richiamo alle «esigenze sociali» da parte di amministrazioni locali che non hanno dotato il territorio delle infrastrutture necessarie quando era necessario. La Fiat di Marchionne non intende, né può aspettare.

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