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Il piano B per Atene: fuori dall'euro

Il premier greco Papandreu

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  Parafrasando la massima anglosassone, si potrebbe dire della Grecia: se ha le stesse cause di una bancarotta, le stesse. caratteristiche di una bancarotta, e le stesse conseguenze di una bancarotta, allora probabilmente è una bancarotta. Parlare di fallimento a proposito di uno Stato è forse segno di una qualche mancanza di tatto, ma non c'è altra parola onesta per definire quello che sta accadendo. Atene, per troppi anni, ha alimentato una spesa pubblica al di sopra delle sue possibilità. Per finanziare questa spesa, ha sottoscritto quintali di debito, e oggi i nodi vengono al pettine. In questa situazione, è perlomeno singolare che l'ipotesi del crack non venga neppure presa in considerazione - tranne, e non è un'eccezione da poco, dai tedeschi, che coi loro tiramolla hanno fatto il possibile per ottenere, dall'Unione europea, un atteggiamento il più duro possibile. La vera domanda che pochi si pongono è: se accettassimo la possibilità del default greco, gli effetti sarebbero più o meno sopportabili rispetto al soccorso rosso di Ue e Fondo monetario internazionale? Chi ritiene che il fallimento non debba essere neppure considerato, solitamente si aggrappa al fantasma del rischio sistemico. In altre parole, l'onda d'urto della bancarotta greca si propagherebbe nel resto del continente. Non è chiaro, però, come ciò potrebbe avvenire. Come ha scritto l'economista Michele Boldrin sul blog noiseFromAmerika.org, delle due l'una: «O il debito pubblico in essere è sostenibile nell'aggregato o non lo è». Se lo è, non c'è ragione di intervenire: la Grecia farà default e chi si è più esposto più ne sosterrà le conseguenze, senza che ciò impatti sugli altri perché si è supposto che il debito è, nel complesso, sostenibile. Se invece non lo è, non lo è a prescindere da come viene allocato: la scelta di fondo che siamo chiamati a compiere è se il fallimento debba cadere sulle spalle di chi ha prestato soldi ad Atene, oppure debba essere scongiurato spalmandolo sui contribuenti europei. Ma, nell'ipotesi che insostenibile sia, insostenibile resta anche trasferendolo ai paesi meno spendaccioni. Con la conseguenza del "mal comune mezzo gaudio", cioè premiando i comportamenti più dissennati in quanto chi li ha messi in atto dovrà risponderne nella stessa misura di tutti gli altri. In entrambi i casi, comunque, la Grecia prima o poi dovrà fare i conti col resto del mondo, e dichiarare il fallimento. Quindi, in nessun caso le risorse che non esistono verranno tirate fuori da un cilindro che non c'è. E questo porta al secondo argomento a favore del fallimento greco: se l'esistenza dell'Ue ha un senso, ce l'ha proprio in un momento come questo. E se ce l'ha, ce l'ha se saprà far prevalere il rigore sulla carità. La Grecia (come del resto l'Italia: lo ha ricordato Roberto Perotti sul Sole 24 Ore) non aveva i conti in regola per entrare nell'euro, perché era, e oggi è ancor più, disallineata rispetto ai parametri di Maastricht (cioè i limiti del 60 per cento al rapporto tra debito pubblico e Pil e del 3 per cento al rapporto tra deficit e Pil). Non avrebbe dovuto entrare nella moneta unica allora - cioè: non avrebbe dovuto essere ammessa - e dovrebbe uscirne oggi. Altrimenti, la sua permanenza minerà la credibilità della valuta comunitaria. Non solo: avvalorerà la presunzione per cui chi si comporta male, sarà salvato a spese dell'Europa (cioè della Germania). Non è difficile capire perché Berlino si oppone. Non è difficile capire, neppure, perché il bailout della Grecia potrebbe condannare l'Ue alla dissoluzione.

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