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La fine del mondo? Nient'altro che un messaggio

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Eil saggio, «Fenomenologia della fine del mondo» è affascinante ricerca su un'antica, perenne ossessione. Subito l'autore osserva con ironico sospetto quell'insistente annuncio della fine dei tempi che va per la maggiore: la cosiddetta "profezia Maya", secondo la quale tra qualche mese il sipario dovrebbe calare sull'umanità. Questa "profezia" si gonfia di una sterminata credulità o, per meglio dire, di una "complicità" senza confini. Essa che cos'è in effetti? Al pari delle altre è un enigma della comunicazione, poiché è nient'altro che un messaggio; un messaggio che, avvalendosi di tutti i media, illustra un evento paradossale, che in realtà non c'è. Ma c'è invece la strabiliante moltitudine di articoli, film e libri sulle apocalissi, senza dire dei ricorrenti "annunci" e dei milioni di pagine web dedicate all'argomento. Questa immensa quantità d'immaginario è appunto oggetto dell'analisi di Notte, analisi che il sottotitolo precisa: "Science Fiction e Fantasy dall'Ottocento a oggi". Con una meticolosa ricostruzione filologica l'autore risale alle origini del mito. L'Ottocento prepara il Novecento attraverso la penna di autori noti, da Jean Baptiste Cousin de Granville all'astronomo-metapsicologo Camille Flammarion e fino a Mary Shelley, celeberrima per il suo Frankenstein, ma molto meno per L'ultimo uomo, romanzo sull'estinzione dell'umanità ben più enigmatico del primo. Ma è il Novecento il tempo della più fiorente narrazione apocalittica: narrazione che risente delle scoperte scientifiche e delle psicosi di allora e del recente passato. Quasi sempre la fantasia degli autori (e dei vociferatori) accoglie l'idea che sia un contagio senza riparo, un'epidemia a far calare il sipario sul mondo: e dunque, colpa di un agente patogeno, magari un batterio sfuggito agli studi di Pasteur e allignato per l'assenza d'igiene. (Tra i due secoli l'igiene, fino allora trascurata e innominata, ottiene le prime cattedre universitarie ed è persino intesa come l'antagonista di ogni patologia, finanche sociale). Il più delle volte, però, le apocalissi epidemiche risparmiano qualche esigua rappresentanza del genere umano, che sopravvive nella natura del pianeta intatta. In questo filone novecentesco si] cimentano scrittori i più vari, benché la palma vada agli anglofoni, da Matthew Shiel a Robert Benson, da Richard Jefferies a Jack London allo scrittore-filosofo Olaf Stapledon, fino a Mordecai Roshwald, Clifford Simak, John Windham, Charles Eric Maine e James Ballard, e fino alle recenti visioni di Phillys Dorothy James. L'antico mito, tradotto in letteratura, assicura forti vendite. Al fondo di questo mare di scrittura, incredibilmente dedicata a un soggetto impossibile, si agitano le tensioni di un secolo che alla sua conclusione, dodici anni fa, segna anche un passaggio di millennio; passaggio che è da considerarsi non solo nel banale significato cronologico, ma ben più perché marca un tempo investito da mutamenti che tendono alla radicale trasformazione di tutto. Ma realmente l'umanità del futuro potrebbe essere il frutto di una discontinuità radicale, per l'azione di tutte le tecnologie convergenti, dalla genetica alla nanotecnologia, dall'Intelligenza Artificiale all'espansione nello spazio. Una schiera di scrittori-scienziati, da Arthur Clarke a Vernor Vinge, prefigura appunto questo volo verso una "superiore" umanità. Messaggio d'un'ambiguità vertiginosa, perché cela l'estinzione di "questa" umanità.

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