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Il fascino indiscreto di Felice Maniero insidia i giovani

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Sel'importante è apparire, essere noti, riconoscibili, non conta il «come» o il «perché» ma il «quanto». Ecco allora che il malvagio, il fellone, the bad guy (il tipo cattivo), quello che una volta veniva stigmatizzato come personaggio negativo, che concludeva immancabilmente la sua parabola esistenziale in modo tragico e distruttivo e al quale veniva puntualmente contrapposto l'eroe positivo, perde le sue caratteristiche moralmente riprorevoli. E diventa, addirittura, un «mito», un esempio da seguire. Difficile dire quanto un film o una fiction tv possa influenzare i comportamenti del cittadino-telespettatore. Il nesso di causa-effetto è materia di sociologi e psicologi. È un fatto, però, che negli ultimi anni sul grande e (soprattutto) sul piccolo schermo proliferano ricostruzioni che presentano celebri rapinatori seriali, boss mafiosi e «coatti» di borgata drogati e assassini nelle vesti di protagonisti ammirati e, a volte, imitati. È il caso del lavoro di Placido su Renato Vallanzasca, della serie televisiva «Il capo dei capi», che racconta l'ascesa di Totò Riina e dell'ultimo prodotto sulla mafia del Brenta e Felice Maniero. A rompere il ghiaccio è stato, però, «Romanzo criminale», liberamente tratto dalla storia della Banda della Magliana. Sia il lungometraggio per il cinema, sia la fortunata versione seriale per la tv hanno involontariamente sdoganato l'immagine di quelli che, nella realtà, sono stati cinici trafficanti di droga (è in gran parte opera loro, e di Cosa Nostra con cui erano in rapporti d'affari, la diffusione di massa dell'eroina nella Capitale alla fine degli Anni '70), ras di quartiere violenti e intolleranti, feroci killer. Se non si può caricare gli autori di responsabilità dirette in questa pericolosa metamorfosi dei ruoli, è anche vero che tali fiction mancano completamente di uno sguardo critico. I delinquenti e i poliziotti che li braccano finiscono per trovarsi esattamente sullo stesso piano, se non peggio. Il criminale rappresenta il mussoliniano leone che vive un giorno alla grande in mezzo ai pecoroni della massa che conducono vite sbiadite, mediocri e inutili. Quindi è un punto di riferimento, un'alternativa possibile alla schiavitù della routine, dell'impiego ripetitivo, della fatica quotidiana per sbarcare il lunario. Di questi tempi, una «svolta» auspicata dai più, anche se non si è disposti a rischiare per farla. Lo dimostrano il successo del serial e del merchandising (magliette, accendini e altri gadget ispirati alla gang romana). Le vittime principali di questo infernale meccanismo sono i giovani, spesso privi del bagaglio culturale e della maturità sociale per distinguere i ruoli. La «forma» del prodotto non li aiuta. Film-inchiesta come quello di Franco Rosi su Salvatore Giuliano sono un esempio poco seguito. Lì la fredda cronaca dei fatti dipingeva la figura del bandito siciliano senza fronzoli, senza ammiccamenti, senza preventive e implicite assoluzioni. Certo, l'immedesimazione è un fattore indispensabile al conseguimento dell'audience. E, comunque, il punto di vista influisce sul giudizio. Chiunque, visto dal di dentro, è giustificabile. Ognuno ha le sue ragioni. E anche una spirale criminale può essere compresa se osservata dalla prospettiva del famigerato protagonista. Ma, alla fine, quello che deve determinare o meno la condanna morale, sono i fatti. E comprendere non vuol dire giustificare.

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