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di Carlo Fruttero Lungo la linea di minor resistenza siamo in marcia da gran tempo, stanchi ormai, ingobbiti e tuttavia grati, nell'insieme.

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Nonsempre era facile seguirla, la linea. Spariva oltre un torrente ringhioso, si perdeva nell'incavo di fossi cari al crescione e a limacciose lumache senza guscio. O perchè cadeva brusca la notte. Che fare adesso? Stavamo lì attorno a magri fuochi di sterpi, malamente accampati, inquieti, la paura come rugiada sui nostri mantelli. L'alba svelava molteplici insidie ovvie a chiunque. Quel bosco troppo fitto, troppo buio, quella gola tortuosa fra pareti di roccia, quel ponticello nudo e sottile sui risucchi del fiume, la palizzata sbilenca dall'aria indifesa, un convergere di uccelli neri sulla radura a oriente, l'ululio di grossi cani tra ruderi anneriti..... Avevamo imparato, ci tenevamo a distanza avanzando a ginocchi piegati, schiena curva, in silenzio. Ma la linea di minor resistenza ci sarebbe servita soprattutto nello smeraldo di un prato prima di metter piede su dolcissime chiazze di mughetti, di primule. Finalmente! Lo slancio era invincibile, ci lasciavamo cadere su quel manto a braccia aperte, lo sguardo ozioso, socchiuso, scivoloso su vaghe ramaglie musicali in un accenno di vento. Api, anche. E una libellula incerta nel battito d'ali trasparenti. Non sembra vero, diceva qualcuno. E infatti non lo era. In mezzo a noi languidi - appena un fruscio, un taglio nel bisso - precipitava il primo giavellotto. Il nemico era lì tutto attorno. Bisognava fuggire, ritirarsi, più di una volta combattere sopprimendo il tremito, richiamando l'impigrito furore a denti stretti, l'urlo pronto a scoppiare, il braccio mulinante a caso nella mischia. Belve, tutti. Nel corpo a corpo le corazze cozzavano, elmi e teste volavano, o mani tranciate, rosse budella, uno scroto divelto. Vincevamo. Perdevamo. Lasciavamo nell'orbita di quel falso idillio morti e feriti, pezzi di noi, rantoli d'agonia, inutili invocazioni. E riprendevamo, chi ancora poteva, a marciare lungo la linea di minor resistenza, ritrovata fra le stoppie dietro una siepe irta di spine o nettissima a tagliare negletti campi interminabili. Fatica, passo dopo passo. Tedio, gesto dopo uguale gesto. Il farro da triturare, l'acqua da cercare, cunei e chiodi da piantare, bacche racimolate, rari frutti, il coniglio selvatico, l'anatra di passo, il cinghiale a volte, da fare a pezzi sulla fiamma. Così tiravamo avanti, il giorno e la notte, la notte e l'inevitabile giorno. C'era chi crollava, in fondo alla file dopo settimane di sabbia, mesi di funesta palude, restava ai margini, insepolto. In altri prevaleva l'impazienza, tentati da un lume, caldo all'orizzonte, una finestra presunta, un villaggio aperto al saccheggio. Disertavano, non ritornavano. O chi ancora cedeva a un invito di smalto azzurro tra due soavi colline gettava lo scudo incurante dei nostri richiami, perduto. E noi sempre ancora a marciare, ancora talvolta a dover combattere, polverosi, ossuti, la daga incrostata, le frecce scarse nella faretra. Ma vivi, grazie alla linea di minor resistenza. Ora ne vediamo all'incirca la fine, oltre quegli ultimi cardi e più in là lo stagno immobile. E ci contiamo, noi superstiti attorno a braci decrescenti. Ci rallegriamo, la voce arrochita, prendendo spesso fiato. Qualcuno tenta le prime note di un canto, presto scoraggiato. Una lunga fuga, dice un altro, tra nebbie e sbiechi di gelide piogge e la mazza del sole, soltanto una fuga è stata tutta la nostra marcia per lancinanti strappi, disonorevoli omissioni. Ma non è stato proprio così, sempre così. C'erano tratti, anche lunghi, di pur guardinga spensieratezza, di euforico abbandono, l'ombra del pericolo rimasta indietro, quando ci pareva di correre più in fretta del sole, della vita. Un altro ride senza molta allegria, sputa sui carboni un suo dubbio di buffone: la linea di minor resistenza non è mai esistita, ce la siamo inventata per dare un senso al nostro andare, una direzione, un'idea di minimo controllo su quanto facevamo, su quel vano soffrire, quel cadere e poi ripartire a disperdere il vuoto, in qualche modo. Mai esistita ripete il guitto. Sarà. Noi lo lasciamo dire perchè alla fine non ha più molta importanza capire come ci siamo veramente arrivati, allo stagno color piombo là dietro.

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